Antonio Juvarra – “Atleti vocali o facchini vocali?”

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Eccovi il consueto articolo mensile di Antonio Juvarra, nel quale questa volta il maestro veronese discute sulla definizione di atletismo vocale. Grazie come sempre ad Antonio per la collaborazione e a tutti voi i miei personali auguri di buona lettura e serene feste pasquali.

ATLETI VOCALI O FACCHINI VOCALI?

Tra i tanti miti fatti circolare dall’ odierna ideologia meccanicistica del canto per rassicurare chi canta di essere un ‘tecnico’ della voce, c’ è anche quello del canto come atletismo. Sostenere una teoria del genere è un po’ come affermare che Gesù Cristo era un surfista, perché camminava sulle acque… Infatti, anche volendo sorvolare sul fatto che il significato etimologico del termine ‘atleta’ allude alla lotta (che col canto, si capisce subito intuitivamente, ha poco a che fare) e anche volendo mettere in primo piano l’ importanza del ruolo svolto dallo ‘stretching’ e dalla distensione nell’ allenamento sportivo, rimane un fatto inconfutabile: un atleta, sia esso un corridore, un pugile o un calciatore, non può evitare di misurarsi con la dimensione della forza fisica e della resistenza alla fatica. Che la forza fisica sia qualcosa che caratterizza l’ atletismo è provato sia dal fatto che le prestazioni atletiche a livello professionale-agonistico si prolungano al massimo fino all’ età di quarant’anni, sia dal fatto che le prestazioni atletiche di un uomo saranno sempre superiori a quelle di una donna. Il fatto che, al contrario, nel canto le prestazioni vocali femminili siano pari se non superiori a quelle maschili (anche per quanto riguarda la potenza e l’ udibilità della voce) dovrebbe indurre i sostenitori del canto come atletismo a rivedere seriamente le loro teorie. In effetti a performance di atleti sessantenni non capita di assistere, come invece è normale nel caso dei cantanti, e neppure risulta che nessuna donna abbia superato un uomo in una gara di corsa o in un combattimento di pugilato (ovviamente intendendo per ‘donna’ la donna naturale, ‘biologica’ e non le nuove ‘donne’, comicamente chiamate ‘anagrafiche’ e scandalosamente ammesse a gareggiare nelle competizioni sportive con le vere donne).

La verità è che il canto (da tenere rigorosamente distinto dal ‘similcanto’) si iscrive in una dimensione totalmente diversa da quella dell’ atletismo. Si tratta di una dimensione in cui, come ci insegna la tradizione secolare del belcanto, la stella polare è rappresentata dall’ assenza di sforzo e dalla ricerca della facilità (chiamata significativamente dal castrato Mancini “dolce facilità”). Questo ha reso possibile il fenomeno di quelli che nel Settecento Parini chiamava “canori elefanti”, ossia cantanti dal fisico non propriamente atletico se non decisamente anti-atletico, che ciononostante sono entrati nella storia del canto, e basti pensare come esempi, per il Novecento, a grandi cantanti come Gigli, la prima Callas, Bergonzi, la Caballé e tanti altri, ‘atleti’ a cui sarebbe venuto il ‘fiatone’, se costretti a fare una semplice corsa, ma che cantando invece facevano sfoggio di una lunghezza di fiati, da far invidia a un atleta. Addirittura il famoso foniatra francese Tomatis era arrivato a formulare la teoria secondo cui la trasmissione più veloce dell’ impulso nervoso, che caratterizza gli atleti, sarebbe la causa che nel canto dà origine a un’ emissione vocale dura, ciò che secondo lui rendeva sconsigliabile per un cantante dedicarsi all’ atletica.

Ove non bastassero queste affermazioni di Tomatis, a fare piazza pulita dell’ideologia dell’atletismo vocale troviamo anche una grande cantante del Novecento, Luisa Tetrazzini, che, oltre ad aver detto di sé stessa di aver imparato prima a cantare che a parlare, scrisse significativamente:

“Lo scopo dell’ arte vocale è quello di arrivare a cantare senza fare il minimo sforzo, ossia naturalmente, facilmente e comodamente.”

Ora è difficile pensare che non dico un’ atleta, ma una danzatrice possa non realizzare ma semplicemente porsi un obiettivo simile, essendo chiaro che nella danza l’ assenza di sforzo, la grazia e la leggerezza sono in larga misura un’ illusione data al pubblico, e non una reale assenza di sforzo e di peso, come invece succede nel canto, dove il contatto con l’ energia è sempre dolce e dove questa energia genera suoni che possono essere potentissimi, ma rimangono, per ciò che riguarda lo sforzo fatto dal cantante, sempre leggeri. Tenuto conto quindi che, a differenza del canto, la danza si potrebbe inscrivere più propriamente nella dimensione della ‘muscolarità’, è significativo che, nonostante questo, nessuna danzatrice si sia mai sognata di definirsi ‘atleta coreutica’. Non parliamo dei violinisti e dei pianisti, che si offenderebbero se si sentissero definire “atleti violinistici” e “atleti pianistici”. Di qui l’ ottusità di quegli studiosi ‘scientifici’ del canto che invece si compiacciono di definire “atleti vocali” i cantanti.

A confermare che la storia del canto come atletismo è solo fuffa pseudo-scientifica, è ancora una volta la Tetrazzini, quando nel suo scritto sul canto afferma in maniera ancora più significativa e assertiva:

“La superiorità dell’ arte vocale è data dalla possibilità di realizzare lo scopo del canto naturale, che consiste nell’ essere in grado di cantare con perfetta facilità e comodità da un capo all’ altro della voce.”

Nel medesimo scritto la Tetrazzini riferisce poi un episodio di cui era stata testimone. Aveva sentito una cantante in un’audizione e al termine le aveva consigliato di curare di più la respirazione. Dopo qualche tempo l’ allieva tornò a farsi sentire ed ecco come la Tetrazzini racconta la prosecuzione della storia:

“Mi disse: “Signora, ho studiato il respiro. Guardi!” Quindi si avvicinò al pianoforte e, spingendo coi muscoli respiratori, riuscì a spostarlo. Ero sbalordita. Non avevo mai visto una cantante così atletica. Poi però quando le chiesi di farmi sentire la sua voce, quello che uscì da quei polmoni possenti fu soltanto un suono striminzito.”

Insomma, la montagna atletico-scientifica aveva partorito, com’ è il suo solito, un misero topolino vocale. Questo perché l’ allieva aveva interpretato l’ invito della Tetrazzini a curare di più la respirazione, come un invito a rafforzare i muscoli della respirazione, secondo la moderna mistificazione foniatrica.
In realtà anche la storia del surplus di energia muscolare, che sarebbe necessaria per ‘sostenere’ arie difficili in tessitura acuta, va drasticamente corretta: niente è più facile infatti che produrre sforzi muscolari diretti e localizzati, che coinvolgono principalmente quella muscolatura che nulla ha a che fare fisiologicamente con la creazione del canto, essendo preposta ad altre attività, ad esempio il facchinaggio o la defecazione in caso di stitichezza. Pertanto, solo filtrando l’ energia in eccesso, stando attenti che l’ azione muscolare rimanga sciolta e NORMALE e non si converta in contrazione rigida (che subito bloccherebbe il flusso dell’ energia e soffocherebbe il suono), si riesce a mantenere dinamicamente quell’ equilibrio acustico che fa emergere e risuonare liberamente la potenza naturale della voce. Solo distribuendo l’ energia in modo calmo, regolare e progressivo nell’ arco dell’intera frase (da cui la definizione di ‘regola del fiato’, ovvero dosaggio dolce dell’ energia, data da Lamperti all’ appoggio), si fa sì che ogni nuova nota nasca naturalmente, alias semplicemente, sul movimento della nota precedente sfruttando la forza d’ inerzia, senza gli interventi bruschi, esagerati e reattivi, tipici di ogni pseudo-tecnica. Senza la lucidità e il ‘distacco’ del prevedere lasciando avvenire, ciò che succede è che quello “spazio elastico”, con cui sinteticamente la Lehmann designava il fenomeno dell’ apertura della gola e dell’ appoggio, subito si converte in blocco pesante e monolitico che, come una pietra al collo, farà affondare irrimediabilmente e miseramente la voce.

Ma nel suo scritto sul canto (da cui abbiamo tratto i passi sopra citati) la Tetrazzini non si limita a criticare il moderno muscolarismo vocale. Andando contro corrente, ha anche il grande merito di valorizzare, nelle sue precise implicazioni tecnico-vocali, il concetto di GRAZIA, concetto trascurato da tutti i moderni adoratori della muscolarità, dell’ atletismo e del ‘vocal power’’. La grazia è quel misterioso ‘quid’, invisibile e inafferrabile, che anima qualunque movimento della vita e gli insuffla un’ energia e un senso che sfugge alle misurazioni degli investigatori foniatrici dell’esterno, per cui si potrebbe dire che il belcanto non è sentirsi sotto la legge, ma sotto la grazia.

La grazia è solitamente associata a un’ altra arte, che è la danza. Nella didattica vocale l’ idea della danza è stata utilizzata da alcuni (ad esempio Celletti) come termine di paragone del canto, e da questa concezione è scaturita anche l’idea di un’ equivalenza, che è la seguente: il parlato sta al canto come il camminare sta al danzare. A prima vista condivisibile, questa analogia è in realtà fuorviante e si presta a diventare il cavallo di Troia del peggiore atletismo e meccanicismo muscolare nel canto. Vediamo perché.

Chi paragona il rapporto esistente tra parlato e canto al rapporto esistente tra camminare e danzare, ignora che mentre nel caso del passaggio dal camminare al danzare ci troviamo di fronte a un cambiamento SULLO STESSO PIANO, nel caso invece del passaggio dal parlato al canto ci troviamo di fronte a un cambiamento DI PIANO, ovvero, iperbolicamente parlando, abbiamo a che fare con qualcosa di analogo a quello che oggi viene chiamato ‘salto quantico’. In altre parole, mentre il parlato può essere paragonato al camminare, invece il canto non può essere paragonato alla danza e questo perché la danza, pur dando all’ esterno l’ illusione della leggerezza e della grazia, rimane costitutivamente inscritta, diversamente dal canto, nella dimensione ‘gravitazionale’ dei pesi corporei (proprio e della partner) da sollevare. Sicché il canto semmai è paragonabile al VOLO, che a differenza della danza si basa su una sospensione (o riduzione) degli effetti gravitazionali, che è reale e non semplicemente ‘mimata’ esternamente. Nell’ ambito della vocalità, pertanto, se decidiamo di usare come termine di paragone del parlato il camminare, l’equivalente della danza non sarà il canto, ma, semmai, quella forma vocale che alcuni erroneamente considerano sinonimo di canto e che qualcuno ha chiamato ‘gridare educatamente’.

Che, a differenza della danza, il vero canto non abbia nulla a che fare con la dimensione dell’ atletismo né tanto meno con quella del ‘gridare educatamente’, lo dimostrano diversi fatti:

1 – a differenza dei danzatori, che (come appunto gli atleti) dopo i trenta/quarant’ anni non riescono più a fornire prestazioni di livello professionale, i cantanti normalmente arrivano alla maturità vocale proprio intorno ai quarant’ anni, dopodiché proseguono la loro attività professionale fino a tarda età (non esistono infatti un Lauri Volpi, una Olivero e un Lo Forese della danza);

2 – quando qualcuno ha cercato di elaborare una didattica vocale, ispirata a concetti della danza, come quello di ‘figura obbligatoria’, il risultato è stato una delle peggiori forme di canto muscolare, ovvero di non-canto, che mai sia stato prodotto: il voicecraft di Jo Estill;

3 – a confermare che i princìpi, elaborati dal belcanto, di leggerezza e facilità sono da intendersi non in senso traslato e ‘poetico’, ma rigorosamente letterale e tecnico-vocale, ci sono moltissime testimonianze di numerosi grandi cantanti di tradizione italiana, ovvero di professionisti, inclusa appunto la Tetrazzini. Ora l’ attività ‘teorico-didattica’ di molti moderni sostenitori del meccanicismo vocale consiste nel cercare di far credere che la “facilità” e la “comodità”, che rappresentano uno dei cardini della tecnica vocale italiana storica, non siano una realtà obiettiva, ma solo l’ effetto illusorio che il cantante ben ‘allenato’ riesce a dare all’ esterno, teoria che rappresenta una delle più gravi mistificazioni messe in atto al giorno d’oggi dall’ ideologica scientistico-meccanicistica.

Che la Tetrazzini con la sua frase non si riferisse affatto a una banale simulazione di facilità e comodità, ma a un reale senso di facilità e comodità (ovviamente da ricercare con lo studio), lo dimostra il semplice fatto che, se applicata alla danza, la frase della Tetrazzini diventerebbe subito insensata: solo un idiota infatti potrebbe scrivere, parafrasando questa frase e applicandola alla danza, che “la superiorità della danza consiste nel correre e saltare sollevando il proprio corpo e quello della propria partner senza fare la minima fatica, nella più assoluta comodità”. Pertanto ciò che rappresenta un’impossibilità obiettiva per la danza, la quale per sua natura deve fare i conti con il fatto ineludibile del peso dei corpi, è invece una realtà costitutiva del vero canto e in questo consiste anche la sua magia, magia resa impossibile dai moderni utopisti delle macchine vocali, con le loro bislacche teorie, tra le quali rientra il rifiuto del principio belcantistico “si canta come si parla”. Il motivo? Essi non riescono a capacitarsi del fatto che il fenomeno del parlato possa conciliarsi e coesistere con l’ ‘impatto acustico’ del canto in termini di potenza del suono e in questo modo dimostrano di ignorare la distinzione (e indipendenza) tra sintonizzatore della voce (il parlato) e motore della voce (respirazione naturale globale). In sostanza, come se qualcuno, ignorando l’ esistenza del motore e la funzione del volante in un’automobile, si mostrasse scettico sulla possibilità che il volante possa far correre la macchina e ne teorizzasse quindi l’ inutilità.

Avendo provveduto a eliminare, come tutti gli utopisti, l’ elemento della realtà che non si concilia con le proprie teorie, a questo punto ai nemici del principio belcantistico ‘si canta come si parla’ non parrà vero di poter riconfermare, nella loro talebana ingenuità, la propria credenza che il canto non abbia niente a che fare col parlato. In questo modo essi dimenticano (ancora una volta!) che esistono dei ‘passaggi di stato’, in cui uno stesso elemento improvvisamente manifesta un aspetto diverso da quello immediatamente precedente, pur essendo iscritto nella stessa dimensione, e basti pensare in proposito a fenomeni come l’evaporazione, il decollo di un aeroplano e la stessa formazione dell’ acqua. Ma di questo (e di altro) ai meccanici del canto non interessa assolutamente nulla, il che significa che, se fossero dei chimici, subito si metterebbero a ironizzare sulla teoria di chi sostiene che l’ acqua è il risultato della combinazione di idrogeno e ossigeno, facendo sfoggio di ‘argomentazioni’ come: “ma che cosa ha a che fare un liquido con un gas? Non si vede anche a occhio nudo che sono due cose diverse?!”. E con questa clamorosa uscita subito raccoglierebbero (purtroppo solo in veste di chimici e non in quella di teorici del canto) le sacrosante pernacchie di tutto il mondo scientifico e accademico.

A questo punto ci si può chiedere: quali sono le cause che hanno dato origine all’ equivoco del canto come atletismo? Innanzitutto il fatto che sia le prestazioni atletiche, sia le prestazioni vocali hanno a che fare col corpo. In secondo luogo il fatto che entrambe, per esigenze professionali, si svolgono in condizioni di stress emotivo. In terzo luogo il fatto che per il loro sviluppo entrambe esigono l’ esecuzione di esercizi fatti con regolarità e costanza, cioè con una disciplina. C’ è però una differenza tra i due tipi di disciplina ed è che mentre per gli esercizi atletici si può parlare di disciplina ‘stoica’, invece gli esercizi vocali si iscrivono in un singolare tipo di disciplina che, volendo usare un ossimoro, si potrebbe definire ‘disciplina edonistica’, nel senso che la ricerca della giusta sintonizzazione del suono va sempre di pari passo, come abbiamo visto, con la ricerca della facilità e del piacere.

A dire una parola definitiva sulla questione dell’atletismo nel canto, è stato il tenore Franco Corelli, famoso per la sua voce possente, che prima di diventare cantante, era stato un atleta. Ebbene, in un’ intervista rilasciata a Stefan Zucker, Corelli rivela che il ‘salto di qualità’ tecnico-vocale lo fece nel preciso momento in cui egli abbandonò l’ approccio atletico al canto, che inizialmente aveva, e incominciò a fare della “dolcezza e non della forza” l’ ispiratrice della sua tecnica vocale. Analogamente il tenore Gianfranco Cecchele, che aveva studiato con l’ affondo (metodo che applica l’atletismo addirittura alle corde vocali, di cui si teorizza l’ “irrobustimento” mediante una speciale “ginnastica”) nell’ ultima intervista da lui rilasciata prima di morire, rivelò di aver attraversato nel corso della sua carriera un periodo di crisi vocale e che uno dei segni rivelatori di questa crisi era dato dal fatto che nel fare gli acuti non riusciva più a “riposarsi” come aveva sempre fatto in precedenza, quando cantava bene. Ora è chiaro che sarebbe semplicemente surreale concepire l’ equivalente di questa affermazione in ambito atletico e cioè ipotizzare, ad esempio, un campione di salto in alto che affermi che il momento in cui si lancia in aria per fare il salto è il momento in cui si riposa.

La conclusione del discorso si delinea quindi nel seguente modo: con l’ introduzione sempre più massiccia nella didattica vocale di termini e concetti desunti dall’ ideologica meccanicistica, come “lotta vocale”, “pressurizzazione del fiato”, “retrazione delle false corde”, “contrazione dello sfintere ariepiglottico”, “sollevamento dell’ arcata zigomatica” ecc. (termini e concetti che tendono a indurre la risonanza forzata nel canto), la concezione atletica del canto viene utilizzata sempre di più come alibi, cioè per uno scopo che non ha a che fare nulla né col canto né con l’ atletica e questo scopo è: giustificare a sé stessi la presenza di problemi vocali, illudendosi che l’ approccio ‘atletico’ non sia quella banale toppa per nascondere i buchi che in realtà è, ma sia la bacchetta magica che li fa sparire.

Antonio Juvarra

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