Antonio Juvarra – Breve storia della gola e del naso nel canto

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Per il suo ultimo articolo del 2021, Antonio Juvarra ha elaborato una sua ulteriore riflessione sul concetto dell’ immascheramento nel canto. Ringraziando ancora una volta Antonio per i suoi sempre interessanti contributi, auguro a tutti una buona lettura.

BREVE STORIA DEL NASO E DELLA GOLA NEL CANTO

In epoca di fobie (spontanee e indotte), da cui siamo assediati da ogni parte, non poteva mancare anche nel canto un’ ennesima fobia ed è la fobia della gola, nota anche come faringofobia. La faringofobia non si lascia visitare (e guarire) da nessun dubbio e il primo dei dubbi potenzialmente terapeutici è il seguente: è possibile che esistano organi o parti del corpo buoni e organi o parti del corpo cattivi? Dalla refrattarietà a questo dubbio salutare deriva tutta la moderna didattica vocale. La faringofobia affligge il canto ormai da un secolo e mezzo e, più precisamente, da quando qualcuno si inventò la fiaba della ‘maschera’. Da allora sono diventati di moda i ‘giri’ del suono, virtuosistici quanto fantasiosi salti in alto, finalizzati ad arrivare il più velocemente possibile nel paradiso della Maschera, senza essere catturati dalla perfida Gola. In realtà la ‘Maschera’ non è altro che il nome, assunto dal Naso quando, nell’Ottocento, in Francia nacque la ‘scienza del canto’. Detta ‘scienza’, basata sul più ingenuo materialismo, fece il suo ingresso nella didattica del canto con una serie di cantonate, tutte scambiate (dai loro autori) per colpi di genio. Una di queste cantonate (che produsse appunto il sarchiapone pseudo-scientifico, noto come ‘maschera’) consistette nel pensare che l’ antichissimo concetto (elaborato più di mille anni fa!) di “voce alta” significasse mandare il suono nelle cavità nasali e paranasali, ignorando anzi non riuscendo neppure a concepire l’idea che l’ ‘altezza’ cui alludeva quell’ antica espressione, era essenzialmente un’ altezza mentale, un supervisionare, appunto dall’ alto, il fenomeno.

In effetti per i belcantisti utilizzare le cavità che stanno sopra il palato, era sempre stato considerato “un vizio orribile” (Tosi). Lo stesso Tosi, contemporaneo di Farinelli, nel suo scritto sul canto aveva stabilito: “La voce deve uscire limpida e chiara, senza che passi nel naso né in gola si affoghi”. Un secolo dopo, questo assioma del belcanto verrà stravolto nel seguente modo: “La voce per uscire limpida e chiara deve passare nel naso” (la ‘maschera’), mentre due secoli dopo diventerà: “La voce per uscire grossa e scura deve affogare in gola”. Era nato l’ affondo. Da notare che, secondo Tosi, mentre il vizio del naso consiste nel fatto che la voce PASSI nel naso, invece il vizio della gola consiste nel fatto non che la voce passi, ma “SI AFFOGHI” in gola, il che significa che lo sbaglio è dato non dall’ usare la gola come cavità di risonanza, ma dall’usarla male, e mezzo secolo dopo Giambattista Mancini provvederà a chiarire in modo definitivo quando questo avviene: 1 – quando si irrigidiscono le pareti della gola (magari per aprirla); 2 – quando non si appoggia la voce.

L’ obiezione che uno potrebbe sollevare a questo punto, è: perché la cavità del naso dovrebbe essere considerata cattiva e quella della gola buona? La risposta si avvale di due buoni motivi: 1 – è la natura ad aver stabilito che la cavità nasale venga usata per l’articolazione di due soli fonemi, che per di più sono consonanti, e cioè la ‘m’ e la ‘n’; 2 – a differenza della gola, la cavità nasale è una cavità di ASSORBIMENTO e NON di amplificazione del suono, tant’è che se vogliamo chiamare qualcuno a distanza, non mugoleremo ‘mmmmm’ (a meno che non crediamo alla scemenza foniatrica dei SOVTE), ma esclameremo “Ehi!” oppure “Ohi!”, cioè useremo una vocale, altrimenti nessuno ci sentirà. Definendo quindi “vizio orribile” quello del naso, è come se i belcantisti avessero intuito una verità autoevidente, che verrà riconosciuta dalla scienza solo due secoli dopo, una volta finita la sbronza del ‘naso-maschera’.Infatti fu nell’ Ottocento che i francesi, la cui lingua è per antonomasia una lingua nasale, pensarono bene di portare acqua al proprio mulino, nobilitando il Naso e trasformandolo da triviale ‘naso’ in esoterica ‘maschera’, con tanto di ‘certificazione scientifica’ della sua efficacia come (magico) amplificatore del suono.

La fiaba della ‘maschera’ suggestiona ancora le persone a tal punto che se si mostra loro questa fotografia animata, dove si vedono le onde del suono che salgono dalla laringe e, grazie all’ abbassamento del velo palatino, entrano in quella spaziosa cavità che sta sopra la bocca, giureranno che si tratta della raffigurazione del ‘suono in maschera’, là dove si tratta invece, molto più squallidamente, della raffigurazione del suono NASALE.

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Tornando adesso alla faringofobia, si può dire che essa è un ramo collaterale di un’ altra psicopatologia: l’ endofobia, o fobia dell’ interno. Per fare un esempio, se noi ci chiedessimo se la pronuncia delle vocali avviene naturalmente dentro lo spazio oro-faringeo o fuori di questo spazio, la risposta dovrebbe essere ovviamente: dentro. Non per niente la fonetica pone la distinzione tra vocali anteriori, vocali centrali e vocali posteriori, ma non contempla (e neppure la fisiologia umana la contempla) l’ esistenza di ‘vocali esterne’. Il fantacanto invece sì. Infatti, ‘argomentano’ alcuni belcantisti immaginari, se il suono fosse formato dentro lo spazio orofaringeo, allora verrebbe ‘contaminato’ dalla gola, ergo sarebbe, per definizione, ‘di gola’! Di conseguenza c’ è chi teorizza (seriamente!) che “nel canto perfetto la pronuncia deve avvenire fuori” (citazione testuale), il tutto senza porsi minimamente il problema di come, disponendo l’ essere umano di organi di articolazione solo interni, sia possibile rovesciarli all’ esterno come un guanto o aggiungere ‘protesi articolatorie’ esterne, per realizzare il nobilissimo, ma alquanto utopico ideale della “pronuncia fuori”.

Abbandoniamo adesso il moderno ‘fuori’ (fonatorio e psichico) e spostiamoci con la moviola del Tempo nella famosa età dell’ oro del belcanto, che non era così mitica come pensiamo, ma per lo meno beneficiava ancora di quel ben dell’ intelletto, noto come buon senso. Subito una piacevole sorpresa ci aspetta: l’ assenza di qualsiasi fobia della gola e dell’ ‘indietro’! Addirittura la gola, denominata anticamente ‘gorga’, aveva fatto la sua comparsa addirittura nel titolo del primo scritto sul canto pubblicato nell’ Europa moderna, ossia la famosa ‘Lettera sul cantar di gorga’ del medico nonché dilettante di canto Camillo Maffei di Solofra, scritto che, se fosse apparso tre secoli dopo, sicuramente sarebbe stato intitolato ‘Sul NON cantar di gola’ oppure ‘Sul cantar di maschera’. Nel Settecento ci imbattiamo in un’ altra geniale scoperta, a cui paradossalmente i moderni devono ancora arrivare: lo spazio di risonanza del canto è bicamerale e comprende la bocca, la gola e nessun’altra cavità più o meno fantastica, sia essa chiamata ‘maschera’ o col suo vero nome: Naso. Non solo: quella esistente tra le due uniche cavità di risonanza della voce (la gola e la bocca) è un’ interrelazione dinamica, basata sulla motilità fisiologica e acustica.

Sarà il già citato Giambattista Mancini a dettare la formula del canto a risonanza libera, parlando di “accordo tra moto consueto e moto naturale e leggero della gola”, formula questa che, rispetto alla moderna concezione dei tubi verticali, degli stampini e delle ‘figure obbligatorie, è quello che è un’astronave spaziale rispetto a un carro trainato dai buoi. Da parte sua il grande Metastasio, il principe dei librettisti d’ opera, definirà le arie “sonate di gola” e con questa definizione non intendeva certo dare una mini-lezione su come NON si deve cantare, ma solo constatare l’ ovvio.

I belcantisti staranno sempre attenti a garantire un rapporto equilibrato tra i due spazi di risonanza, uno dei quali, la bocca, fonte della brillantezza, è stato da loro associato a un senso di orizzontalità e “larghezza”, e l’ altro, la gola, fonte della rotondità brunita, pur essendo verticale, dal cantante è percepita, soprattutto nella zona acuta, come “gola larga”. Scrive Mancini in proposito:

“Il maestro deve osservare diligentemente in QUALE LARGHEZZA DI BOCCA LA VOCE RIESCA PIU’ CHIARA, PIÙ PURGATA E PIÙ ESTESA e quindi rilevare QUALE E QUANTA debba essere l’ apertura della bocca.”

La scoperta che la brillantezza naturale del suono (che nella zona acuta diventa squillo) NON deve essere associata all’ anteriorizzazione, alla ‘proiezione’ e all’ ‘immascheramento’ del suono (come incominciarono a farneticare i seguaci di Garcia), ma a quello che si potrebbe chiamare ‘asse orizzontale’ della risonanza, sarà trasmessa anche ai (pochi) maestri di vero belcanto dell’ Ottocento (ad esempio, Francesco Lamperti) e del Novecento (ad esempio, Aureliano Pertile). Il primo scriverà che occorre “cantare la ‘A’ nel fondo della gola, stando attenti che non si trasformi in ‘O’” (quindi esattamente il contrario dei tubi verticali di Manuel Garcia, creati alzando il palato molle e abbassando la laringe). Il secondo, Aureliano Pertile, dirà che l’apertura della bocca deve avvenire “più in senso orizzontale che verticale”, e, riferendosi all’ apertura della gola, parlerà sempre di “gola larga”. Alla stessa idea allude Beniamino Gigli, quando, nelle testimonianze raccolte dall’ amico Herbert-Caesari, afferma che è possibile mantenere la distinzione delle vocali anche nella zona acuta e che nel caso della ‘I’ occorre continuare a concepirla mentalmente come vocale pura (quindi NON deformandola in ‘y’ o in ‘e’), ma evocando la forma dello spazio della ‘A’, il che significa lasciando che lo spazio ‘sbocci’, ossia che la gola si apra orizzontalmente e non verticalmente.

L’ idea di Gigli (pensare alla vocale ‘A’ nella zona acuta) rappresenta la concezione opposta a quella di Garcia (che invece invitava a pensare alla vocale ‘O’) e quindi, in quanto anch’ essa, apparentemente, predeterminazione di un modello statico di spazio, sembrerebbe l’ errore di segno opposto a quello di Garcia. In realtà Gigli usa la ‘A’ solo come metafora fonetica per indicare quello che abbiamo chiamato asse orizzontale della brillantezza naturale e giusta apertura della gola (anch’essa ‘orizzontale’). Non a caso questo tipo di apertura naturale interviene sia in molte interiezioni, sia nella risata, sia nel sospiro di sollievo, tutti atti naturali che sfociano nella vocale ‘A’. (Sarebbe surreale, se non grottesco, sentire una risata fatta di ‘U’ o un sospiro di sollievo che sfocia nella ‘I’). È interessante notare a questo proposito come il Maestro del belcanto Giambattista Mancini, nella sua superiore visione del canto, abbia eliminato come plateali errori espedienti che invece, un secolo dopo, il maestro del moderno meccanocanto Manuel Garcia jr. scambierà per avveniristici mezzi tecnico-vocali ‘scientifici’.

Il primo espediente farlocco, spacciato per tecnica vocale da Garcia col nome di “voce oscurata” e divenuto un secolo e mezzo dopo con Melocchi metodo ‘scientifico-foniatrico’ col nome di ‘affondo’, viene buttato nella discarica da Mancini con queste parole: “Per tale smoderata apertura di bocca i cantanti vengono ad avere la voce in gola e tanto meno potranno poi avvedersi che, le fauci restando così tese, ne verrà in conseguenza tolta quella flessibilità necessaria per dare alla voce la natural chiarezza e facilità. Quindi, se resta inemendata nello scolaro siffatta situazione di bocca, canterà il poverino, ma sempre con una voce AFFOGATA, cruda e PESANTE.”
Il secondo espediente farlocco, tuttora in voga coi nomi di ‘voce avanti’, ‘maschera’, ‘proiezione’ e frutto appunto della fobia della gola, viene liquidato anch’esso da Mancini con parole altrettanto caustiche e ‘chirurgiche’: “Se il cantore non si avvale del moto delle fauci, ma solo del moto della bocca ed a quel segno e in quella guisa ch’egli usa fare quando ride, ne viene per conseguenza ch’egli allora eseguisce al naturale il belar d’ una capra e il nitrir d’ un cavallo.”

È triste constatare che quelli che nel Settecento apparivano chiaramente come errori marchiani (idolatrare UNA delle DUE cavità di risonanza e demonizzare l’ altra) siano stati in seguito trasformati dall’ ottusa presunzione moderna in (tragicomici) segreti tecnico-vocali ‘scientifici’, col risultato di far ululare, nitrire e belare i cantanti invece che farli CANTARE.

Antonio Juvarra

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