Dodici anni dopo: un ricordo di Luciano Pavarotti

Pavarotti dopo la sua recita di addio, nel 2004 al Metropolitan come Mario Cavaradossi in Tosca. Foto ©Nancy Ellison

Dodici anni fa, esattamente il 6 settembre 2007, Luciano Pavarotti ci lasciava per sempre. La sua morte può a buon diritto essere considerata come la fine di un’ epoca gloriosa e irripetibile: quella della grande scuola tenorile italiana, che dopo di lui si è estinta per assoluta mancanza di successori adeguati. Credo sia difficile non essere d’ accordo sul fatto che Luciano Pavarotti sia stato, per popolarità e livello dei risultati artistici, l’ ultimo tenore italiano di rilievo veramente storico. Avendo avuto la possibilità di ascoltarlo parecchie volte dal vivo in un periodo di tempo compreso tra il Ballo in maschera del 1974 alla Fenice di Venezia e un concerto a Ferrara con Claudio Abbado nel 1996, posso dire che la voce di Pavarotti era di quelle che ti fanno innamorare al primo ascolto: la bellezza sfolgorante del timbro, la dizione perfetta che metteva in rilievo ogni parola del testo e la comunicativa straordinaria erano davvero quelle di un fenomeno vocale che col passare degli anni si guadagnò una popolarità probabilmente mai raggiunta da nessun cantante lirico prima di lui e che purtroppo ebbe anche la conseguenza negativa di portarlo, diciamo soprattutto dal 1985 in poi, a una serie di compromessi commerciali che non si confacevano al suo straordinario livello di artista. Io in più occasioni ho criticato, anche in maniera decisamente aspra, la parte finale della sua carriera, quando il tenore modenese si lasciò andare ad esibizioni di stampo fra il populista e il circense che io trovavo del tutto diseducative, ma perchè in una giornata come oggi non ricordarlo per quello che fu veramente, vocalmente parlando, almeno sino ai primi anni Ottanta e forse anche oltre? Sono comunque oltre vent’ anni di luminosa carriera in cui, pigrizia interpretativa a parte, Big Luciano dimostrò a tutto il mondo musicale di meritare assolutamente la famosa frase di Rodolfo Celletti, più volte ripetuta dal musicologo romano in articoli e libri: “Corelli, Bergonzi, Kraus e Pavarotti sono stati i paladini della rinascita tenorile dopo anni segnati dal malcanto”. A voler essere onesti, lo strumento naturale di Pavarotti era di qualità straordinaria come pochi altri nella storia del canto ma l’ impostazione vocale, pur molto pregevole per naturalezza e spontaneità, non era sempre esente da piccoli difetti, dovuti però più alla pigrizia del cantante nel trascurare di voler correggere alcune cose, piuttosto che ad una vera e propria carenza di rifinitura tecnica.

Che Pavarotti sapesse benissimo come gestire il proprio strumento lo si capisce da alcuni particolari fondamentali per riconoscere una corretta emissione, vedi ad esempio la preparazione al passaggio di registro (di cui oggi nessuno parla più, anche perché i critici operistici di oggi manco sanno cosa sia…), la copertura del suono nella zona compresa fra il MI3 e il SOL3 e il sistematico sfruttamento dei risuonatori superiori che dava il massimo risalto a un’ ottava acuta splendida per lucentezza, estensione e facilità. Uno dei difetti più evidenti riscontrabili nella sua vocalità si trovava invece, soprattutto nella seconda parte della carriera, nell’ emissione delle mezzevoci, spesso opache, affette da vibrato e indietro di posizione. Cosa di poco conto ma che, se meglio curata, avrebbe portato Big Luciano a risultati ancora più convincenti soprattutto in ruoli protoromantici come quelli di Edgardo, Arturo, Fernando e Tonio. Lo stesso dicasi per alcune lievi mende musicali, come per esempio la tendenza a lievi sbucciature in passi ritmicamente complicati. In ogni caso, Pavarotti aveva assimilato completamente i principi della scuola vocale italiana e li aveva ulteriormente perfezionati grazie all’ incontro con una maestra assoluta della tecnica come Joan Sutherland, sua partner fissa per quasi un ventennio in decine di recite. Un perfetto esempio della splendida resa vocale raggiunta da Pavarotti nei primi anni di carriera si può ascoltare in questa esecuzione della romanza “Non t’ amo più” di Francesco Paolo Tosti, ripresa durante un concerto tenuto alla UCLA’s Royce Hall di Los Angeles con il pianista John Wustman, il 23 settembre 1973.

Esecuzione davvero da manuale: non un suono fuori posto, mezzevoci omogenee e timbrate, passaggio di registro impeccabile sulle parole “una catena dileguante al ciel”. I recitals solistici di Pavarotti contribuirono in maniera determinante alla crescita della sua fama internazionale e alla costruzione dell’ immagine di un cantante comunicativo e capace di instaurare un feeling immediato col pubblico.

Nella scelta dei brani per i suoi programmi da concerto, oltre alla lirica vocale di fine Ottocento il tenore modenese riservava sempre uno spazio, preferibilmente all’ inizio della prima parte, alle arie barocche. Dallo stesso recital di Los Angeles, ascoltiamo “Alma del core” di Antonio Caldara.

Di seguito, questa bellissima interpretazione di “Già il sole dal Gange” di Alessandro Scarlatti. Come tutti i grandi cantanti italiani, anche Pavarotti eseguiva questi brani nell’ edizione curata dal musicologo romano Alessandro Parisotti (1853-1913) e pubblicata nel 1890 da Ricordi col titolo Arie antiche: ad una voce per canto e pianoforte. L’ esecuzione proviene da un recital del 31 luglio 1976 al Großes Festspielhaus di Salzburg. Il pianista è Leone Magiera.

Veniamo adesso agli ascolti operistici. Della trentina di ruoli interpretati sulla scena, spiccano a mio avviso nella carriera di Luciano Pavarotti le sue impersonificazioni di Riccardo, Rodolfo e Nemorino. Senza nulla togliere al livello notevolissimo raggiunto dal tenore modenese in altre parti, nei tre caratteri da me citati gli esiti interpretativi raggiungono altezze tali da porsi accanto a quelle dei massimi tenori di tutta la storia del canto. Iniziando dal ruolo del protagonista nella Bohéme di Puccini, che fu anche quello in cui Pavarotti fece il suo debutto scenico a Reggio Emilia nel 1961 e successivamente raggiunse la notorietà internazionale sostituendo Giuseppe Di Stefano al Covent Garden, aveva ragione Rodolfo Celletti a dire che quella di Pavarotti era esattamente la voce di Rodolfo come ognuno di noi se la immaginava: fresca, luminosa, palpitante. La voce della giovinezza, in poche parole, che incarnava perfettamente lo spirito della descrizione di una bella età perduta per sempre che sta alla base del capolavoro di Puccini. Ascoltiamo il Rodolfo di Pavarotti, ripreso dal vivo al Metropolitan, il 15 marzo 1977 sotto la direzione di James Levine. Il video è tratto dalla ripresa televisiva che fu la prima trasmissione in diretta di un’ opera dal Met.

Non è possibile fare il minimo rilievo a un’ esecuzione che, se non proprio perfetta, ci va davvero molto vicino. Lo splendore delle note acute, il fervore ispirato del fraseggio, l’ idiomaticità stilistica e lo slancio autenticamente romantico dell’ interpretazione sono quelli di un cantante che vive e sente la parte e al quale manca poco, pochissimo per essere perfetto. Nelle sue apparizioni a Milano, Vienna, Salzburg, New York sotto la guida di giganti del podio come Herbert von Karajan, Carlos Kleiber e James Levine il grande tenore ha delineato quello che, senza dubbio, è stato il ritratto più completo di Rodolfo apparso sulla scena nel secondo dopoguerra.

Luciano Pavarotti e Claudio Abbado, nel 1996 al Teatro Comunale di Ferrara. Foto proveniente da collezione privata

Ugualmente di altissimo livello è la caratterizzazione che Pavarotti delineava del protagonista maschile di Un ballo in maschera. Il carattere di Riccardo deve spaziare dall’ allegria fino al sospiro sentimentale e alla passionalità; Pavarotti possedeva nel suo bagaglio espressivo la mobilità di fraseggio tramite la quale riusciva a rendere in maniera stupenda l’ umore impulsivo, febbrile e mutevole di questo personaggio verdiano. Io ho visto Pavarotti quattro volte in quest’ opera e ne conosco almeno un’ altra decina di registrazioni dal vivo. Devo dire che le due incisioni ufficiali da lui effettuate non rendono giustizia adeguata a un’ interpretazione che si può apprezzare molto meglio nei live, diversi dei quali reperibili sul mercato abbastanza facilmente. Il video che vi propongo è tratto dalla produzione di Un ballo in maschera allestita dalla Scala nel dicembre 1977 per la stagione del bicentenario e trasmessa in diretta televisiva. Dirigeva Claudio Abbado, insieme a Pavarotti cantavano Mara Zampieri, Piero Cappuccilli, Elena Obratzsova. Io ero in teatro quella sera, posso solo dire che recite del genere oggi non se ne sentono più e sfido chiunque a dimostrarmi il contrario.

Introspezione, senso della rinuncia dolorosa e disperata esaltazione sono delineati da Pavarotti in un ritratto vocale vibrante, appassionato e avvincente, che alla chiusa fà letteralmente esplodere il pubblico milanese in una ovazione da stadio, mica quei quattro applausi reattivi dopo un’ aria che i divi farlocchi odierni spesso cercano di spacciare per trionfi. Per chi come me ha vissuto dal vivo quei momenti, si tratta di un’ esperienza che non può essere dimenticata.

Il terzo personaggio di assoluto spicco nella carriera di Luciano Pavarotti fu quello di Nemorino ne L’ Elisir d’ amore di Donizetti. Come da lui dichiarato in molte interviste, Pavarotti amava molto questo ruolo e riusciva a calarsi perfettamente nei sentimenti di un ragazzo di campagna innamorato e credulone, che le melodie donizettiane trasformano in un estatico sognatore. Quella di Nemorino è una parte non facile soprattutto per la lunghezza e l’ impegno vocale richiesto dalla scrittura donizettiana; Big Luciano disse sempre di aver voluto delineare un Nemorino più energico e volitivo, anche dal punto di vista scenico, rispetto a quelli raffigurati dai grandi tenori di grazia storici. L’ artista modenese cantò la parte in tre produzioni alla Scala e due al Met. Dal primo allestimento newyorkese, del 1981, ecco il duetto fra Nemorino e Dulcamara, dove la verve comica irresistibile ma assolutamente priva di volgarità, tutta giocata esclusivamente sul porgere delle parole, è garantita da un Dulcamara perfetto e raffinatissimo come quello del leggendario Sesto Bruscantini.

Come ho detto in apertura di questo post celebrativo, io ascoltai Pavarotti per l’ ultima volta al Teatro Comunale di Ferrara nella primavera del 1996 in un concerto con la Chamber Orchestra of Europe diretta da Claudio Abbado di cui più sopra ho inserito una foto. Dopo quella sera, non ebbi più il desiderio di andarlo a sentire soprattutto perché sono sempre stato contrario all’ atteggiamento voyeuristico di quelli che si compiacciono di guardare morbosamente la fase declinante della carriera di un artista lirico. Quello che lui fece dopo, credo abbia poca importanza al fine di una valutazione generale. Il baraccone dei Tre Tenori, il caravanserraglio mediatico dei vari Pavarotti and Friends che comunque avevano almeno uno scopo benefico, in questi dodici anni passati dalla scomparsa di Luciano Pavarotti hanno gradatamente perduto di importanza. Del resto, lui stesso si rendeva conto di avere sbagliato qualche cosa visto che la sua ultima dichiarazione resa pubblica, poco prima della morte, fu la frase: “Vorrei essere ricordato come un cantante d’ opera”. Oggi ci resta la memoria sempre viva di una grande voce e di un artista che, come pochi altri nella storia dell’ opera, sapeva parlare al cuore del suo pubblico. L’ eredità musicale e interpretativa di Luciano Pavarotti è per fortuna ben documentata da una vasta discografia, che contiene pressochè tutti i capisaldi del suo repertorio e ancora oggi registra grandi successi di vendite. Chi non ha avuto la possibilità di ascoltarlo dal vivo, può trovare nei suoi dischi un ritratto complessivamente  attendibile del grande tenore che Pavarotti certamente era.

Per sempre nei nostri cuori, Luciano!

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