“Si canta come si parla” di Antonio Juvarra

Antonio Juvarra mi ha inviato il suo ultimo scritto di tecnica vocale. Questa volta il docente veneto tratta il problema della pronuncia e dell’ articolazione nel canto. Ringraziando come sempre il maestro Juvarra per la preferenza accordatami, vi auguro una buona lettura.

 

“SI CANTA COME SI PARLA”, NON COME SI PENSA SI PARLI…

“Stamattina-ho-visto-un-gallo-bianco-rosso-verde-e-gialloooooo” è il pittoresco ‘vocalizzo’ (da cantare velocemente sulla stessa nota e con l’ ultima vocale prolungata), che Giangiacomo Guelfi disse di aver imparato dallo storico baritono Titta Ruffo.

La logica (apparente) di questo ‘vocalizzo consonantico’ si basa sulla trovata di inglobarvi tutte le vocali e quasi tutte le consonanti (13 su 16) dell’italiano. E con questo? Forse che il semplice fatto di riprodurre tutti i fonemi del parlato dovrebbe favorire il canto? In effetti, sulla scia di questa convinzione, rafforzata da un’ interpretazione letterale della massima belcantistica ‘si canta come si parla’, al giorno d’oggi molti propongono una metodologia vocale, che parte da normali frasi, che vengono prima parlate e poi gradualmente intonate. C’ è da osservare che se questa teoria fosse vera, la gente canterebbe spontaneamente già a partire dall’età di due o tre anni, quando si sanno già dire perfettamente tutte le vocali e tutte le consonanti, esattamente come, con questa logica, un’ automobile, a forza di correre, dopo un po’ dovrebbe mettersi a volare, come fa l’ aeroplano che, correndo sulla pista, a un certo punto decolla… Constatato che tutto ciò invece non avviene, si dovrebbe innanzitutto chiedersi il perché e, secondariamente, cercare di capire il motivo per cui il primo belcantista che si è occupato di didattica vocale, il settecentesco Pier Francesco Tosi, sorprendentemente e significativamente ebbe a scrivere, al contrario, che “se il maestro fa cantare all’ allievo le parole, prima che egli abbia un franco possesso del solfeggiare e del vocalizzar appoggiato, lo ROVINA.”

Cercare di rispondere a queste due domande può portare a una comprensione più profonda sia dei veri rapporti tra parlato e cantato, sia della stessa massima belcantistica ‘si canta come si parla’. Diciamo innanzitutto che l’idea di inglobare in un vocalizzo quasi tutte le consonanti avrebbe senso solo se esse non esistessero già nel parlato, mentre invece si tratta esattamente delle stesse consonanti del parlato, da articolare esattamente nello stesso modo del parlato. A questo punto uno potrebbe logicamente obiettare che allora neppure i vocalizzi avrebbero ragione di essere, dal momento che anche le vocali del canto sono, anche se non sembra, esattamente quelle del parlato. Qui sta in effetti il punto nevralgico di congiunzione tra parlato e cantato, punto nevralgico che sfugge a molti, che paradossalmente parlando hanno un possesso naturale perfetto dell’ articolazione, ma non una coscienza della sua vera natura e struttura.

Il problema del trasferimento del parlato nel canto consiste nel riuscire a mantenere esattamente la stessa purezza e la stessa modalità articolatoria sciolta e fluida del parlato, senza aggiungervi niente, ma creando contemporaneamente, grazie al respiro, uno spazio morbido e duttile più ampio di quello del parlato, ciò che rappresenta la condizione necessaria perché il parlato si trasfiguri in canto, ossia perché la sua essenza venga trasfusa nella dimensione del canto, senza essere deformata e distorta.

A questo proposito occorre tener presente che, contrariamente a quanto sostengono i fautori della ‘pronuncia scolpita’ e declamata, pronunciare di più non significa pronunciare meglio, anzi si può dire che se questo ‘declamare’ è il frutto di un’attivazione diretta della scansione articolatoria, è vero esattamente il contrario… Infatti è solo rispettando la QUALITA’ dell’articolazione naturale parlata che potrà avvenire questa trasfusione o trapianto dell’essenza pura del suono parlato nella realtà più ampia del canto e a questo punto la prima domanda è: qual è questa ‘qualità’?, mentre la seconda domanda è: questa qualità come può essere non tanto creata (dato che essa già esiste nel parlato), quanto piuttosto mantenuta tale e quale nel canto? La risposta si affaccerà da sola alla coscienza, se si incomincia a concepire la pronuncia per quello che è, ossia come un PROCESSO DINAMICO naturale che si autogenera e si autoalimenta, e NON come una somma di POSIZIONI ‘ideali’ statiche e analitiche, tanto meno di ‘figure coatte’, alias stampini muscolari, con o senza il marchio ‘scientifico’. In pratica occorre resistere alla tentazione di FARE l’ articolazione, ricordando che questo processo dinamico è qualcosa che ci accompagna ed è naturalmente un nostro docile possesso al servizio della nostra volontà di parlare e comunicare fin da quando abbiamo l’ età di due anni, per cui non abbiamo bisogno di ‘reinventarlo’.

La risposta all’ obiezione per cui, se è vero che introdurre tutte le consonanti nei vocalizzi è superfluo perché si tratta delle stesse consonanti del parlato, allora dovrebbe essere vero anche che i ‘vocalizzi’, in quanto basati sulle stesse vocali del parlato, dovrebbero essere superflui, può essere pertanto formulata nel seguente modo. Poiché a far sì che l’articolazione parlata diventi il sintonizzatore automatico della voce non è la forma di alcuna singola vocale o consonante, ma, appunto, il MOVIMENTO essenziale e sciolto con cui parlando si passa da un fonema all’ altro, e poiché nel canto si tratta di riuscire a mantenere l’ essenzialità e la scioltezza di questo stesso movimento in una situazione più difficile, quale è data dall’ esigenza di uno spazio di risonanza più ampio di quello del parlato, l’ antica scuola italiana ha individuato nel cambio di VOCALI E/O DI NOTE la condizione più facile perché il movimento minimale e vitale dell’ articolazione parlata possa mantenersi anche nel canto e agire da sintonizzatore automatico della voce. Da questa geniale intuizione nacque l’ idea dei vocalizzi, concepiti non come semplice mezzo di ‘riscaldamento’ della voce, ma come veri e propri principi formativi della voce.

In questo modo gradualmente la voce cantata viene educata ad attuare lo stesso movimento lieve e sciolto che interviene nel passare da una vocale all’ altra, anche quando tra le due vocali c’ è una o più consonanti, ovvero a mantenere la stessa scioltezza articolatoria anche in presenza di consonanti, da concepire come ponti (con-sonanti=collegamento di ‘sonanti’) e non come dighe. Si prenderà coscienza allora di qualcosa che parlando realizziamo perfettamente, ma di cui non siamo consapevoli a causa della velocità con cui parliamo e cioè: SI PARLA E SI CANTA SULLE VOCALI E NON SULLE CONSONANTI. Il che significa che, sia parlando sia cantando, le consonanti vengono lasciate avvenire e non FATTE, altrimenti lo spazio della consonante ‘mangerà’ lo spazio della vocale, rendendo impossibile il legato. Questo è il senso dell’ insistenza di tutti i grandi cantanti di tradizione italiana a non accentuare meccanicamente la pronuncia nell’ illusione di renderla ‘teatrale’, ma a concepire la pronuncia come “semplice e naturale” (Caruso), a “non esagerare la pronuncia” (Pertile), a realizzare una “pronuncia dolce e chiara” (Lamperti).

In sostanza il declamato, concepito come ‘pronuncia scolpita’, rafforza la consonante, che così invade lo spazio della vocale, impedendole di risuonare liberamente. Pertanto, paradossalmente, si esercita di più l’ articolazione (nel senso di facilitare il trasferimento nel canto della sua natura essenziale e sciolta), alternando due vocali sulla stessa nota che pronunciando una frase piena di consonanti come il ‘vocalizzo’ di Titta Ruffo, citato all’ inizio…

Qualcuno potrebbe a questo punto obiettare: come si fa allora a realizzare un declamato drammatico? In effetti nel canto, come nella vita, non esistono solo situazioni emotive tranquille, ma anche perturbanti. La risposta del metodo italiano segue sempre la logica del principio di naturalezza: una volta reintegrato nel canto (in toto e nella sua reale struttura) il meccanismo naturale della pronuncia parlata, l’ espressione della drammaticità verrà realizzata automaticamente come accade nella vita, ossia la pronuncia da sola si animerà naturalmente nelle circostanze emotive più perturbanti, senza mai scadere ad attivazione meccanica diretta della scansione articolatoria.

Assimilato questo fatto, ossia lasciando avvenire da solo (e NON facendo direttamente) il processo naturale dell’ articolazione, senza alcuna ‘interferenza tecnica’ da parte della mente razionale, otterremo un altro vantaggio: potremo finalmente far sì che esso non ostacoli quel secondo processo naturale che è parte integrante del canto e che rappresenta il fattore di trasmutazione del parlato in canto, ossia la respirazione naturale GLOBALE. E’ questo l’ elemento (nuovo rispetto al parlato), che crea nella gola quello ‘spazio vuoto senza pareti’, che è necessario nel canto e che parlando invece non abbiamo bisogno di creare.   Ora poiché anche le percezioni sono relative (cioè variano a seconda dei diversi rapporti tra i vari aspetti della voce), ciò che accade è che l’ articolazione semplice e sciolta del parlato, mantenuta tale e quale nel canto, ma messa in relazione con una respirazione più ampia e profonda di quella del parlato, verrà per ciò stesso percepita soggettivamente come ancora più ‘trasparente’ e ‘minimale’, pur rimanendo obiettivamente la stessa del parlato, e questo è il significato del detto di Tito Schipa “parole piccole, mai grandi”.

Viceversa, le “parole grandi”, prodotte dall’ idea di ‘scandire bene’ le parole e dalla ‘pronuncia scolpita’, sommate al rallentamento del tempo, creato naturalmente dalla scrittura musicale, causeranno un’ alterazione completa della pronuncia naturale parlata, che quindi non potrà più funzionare da ‘sintonizzatore automatico’ del suono, con conseguente distorsione acustica. E questa è una delle differenze, rispettivamente, tra l’ antica tecnica del belcanto e le moderne tecniche vocali, precisando ovviamente che grandi cantanti del Novecento come Caruso, Schipa, Pertile e Gigli hanno raggiunto l’ eccellenza proprio perché applicavano la prima tecnica e non la seconda.

Il mantenimento dei movimenti articolatori semplici, sciolti e naturali del parlato come condizione necessaria della risonanza libera nel canto era già stato scoperto, con geniale anticipazione, da Giambattista Mancini nel Settecento, prima che la sua intuizione venisse sepolta dalle utopie meccanicistiche tardo-ottocentesche (e attuali…). Così espone questo principio fondamentale Mancini:

“Non si deve credere che la bocca debba restar priva di quel suo MOTO CONSUETO, che di NECESSITA’ le si conviene, non solo per SPIEGARE LE PAROLE, ma ancora per ISPANDERE e CHIARIRE la voce.”

Cinque concetti rivelatori sono condensati in questa frase: 1)- “MOTO CONSUETO”. Il movimento articolatorio non è il movimento ‘studiato’, ‘tecnico’ delle varie forme di declamato ‘impostato’, ma è il movimento normale, naturale, spontaneo della pronuncia parlata; 2)- “DI NECESSITA’ LE SI CONVIENE”. Dato che il movimento articolatorio del parlato, in quanto naturale, ubbidisce a precise leggi acustiche e fisiologiche, non è possibile trovare alternative ‘tecniche’ a questa modalità articolatoria, se si vuole che il suono sia perfettamente sintonizzato;   3)- SPIEGARE LE PAROLE. La pronuncia chiara, comprensibile, delle parole non è il risultato di una speciale attività ‘tecnica’, ma è la conseguenza naturale della giusta sintonizzazione del suono., per cui non può esserci emissione libera, se non c’è pronuncia libera; 4)- “ISPANDERE”. Questa è la modalità con cui il suono, che non è un oggetto, ma una serie di onde concentriche, viene trasmesso nell’aria; tale ‘effusione’ non ha niente a che fare quindi con le moderne ‘proiezioni’ (siano esse concepite come metafora meccanica o ottica), ‘proiezioni’ che ostacolano la risonanza libera, riducono lo spazio che dà rotondità al suono e portano a spingere la voce; 5)- “CHIARIRE”. Chiarire è lasciare emergere la naturale essenza luminosa del suono, definita dai belcantisti anche come “limpidezza”, per cui l’espressione “chiarire la voce” è da considerare semplicemente come sinonimo di ‘sintonizzare la voce’. La parola “chiaro” e “chiarezza”, riferita alla voce, è la parola che ricorre più frequentemente nei trattati belcantistici. Essa non è da intendersi, in senso coloristico, come sinonimo di ‘schiarito’ o ‘sbiancato’. Si tratta infatti del ‘chiaro’ come contrario del torbido, quel chiaro che fa apparire la realtà com’è e per cui noi diciamo, ad esempio, “la situazione adesso è chiara” e non “la situazione adesso è bianca…” Come tale, il chiaro può conciliarsi anche con lo scuro della voce (quando è l’emergere del suo timbro naturale o manifestazione della qualità della morbidezza), nel qual caso avremo il suono ‘brunito’, da intendersi come “scuro lucente” (e non opaco, come invece accade con la manovra artificiale di ‘oscuramento’ della voce, inventata da Garcia).

Antonio Juvarra