Il “mio” Carlo Bergonzi. Un ricordo di Daniela Lojarro

Per onorare ulteriormente la figura di Carlo Bergonzi, dopo il mio post commemorativo ho deciso di chiedere un contributo scritto a Daniela Lojarro, cantante torinese che è stata per diverso tempo allieva del grande tenore scomparso e ha continuato a rendergli visita con assiduità fino agli ultimi anni della sua vita. Ringrazio molto Daniela per aver accettato, in nome della nostra amicizia di lunga data, il mio invito a rendere questa preziosa testimonianza diretta.

 

                                                      Carlo Bergonzi, il “mio” Maestro

Carlo Bergonzi, ossia il Maestro, è entrato nella Storia del Melodramma italiano, grazie alla sua Arte, esercitata con quell’ onestà e schiettezza tipiche della sua terra. Quella terra cui è rimasto legatissimo e che lo ha visto nascere proprio 90 anni fa a Vidalenzo, a pochissimi passi da Busseto, patria di Giuseppe Verdi, il compositore di cui è stato eccelso interprete in tutti i teatri del mondo.

Non sono una giornalista, perciò non desidero intervenire sulla mancanza di notizie sulla scomparsa del grande Tenore verdiano. Nemmeno appartengo alla categoria dei critici o storici della musica: non mi compete stabilirne le qualità tecniche o interpretative. Sono stata una sua ammiratrice e poi, per mia grande fortuna, sua allieva. Potrei dire con un celebre verso di Dante che il Canto “Fu galeotto”: ci ha avvicinato e il rapporto di fiducia tra insegnate e allieva si è trasformato in un legame di stima e affetto.

Non è facile a così poche ore dalla notizia della sua morte parlarne. Queste righe sono il “mio” omaggio e addio a un artista, che mi ha commosso ed esaltato; sono il ricordo personale del “mio” Carlo Bergonzi, il “mio” Maestro, colui che ha saputo trasmettermi lo stile del “Canto sul fiato” ma anche di un uomo che è stato un padre spirituale.

Il primo incontro con Carlo Bergonzi avvenne al Teatro Nuovo di Torino: interpretava Enzo Grimaldo nella Gioconda di A. Ponchielli. Ero una bambina di 6 anni che aveva appena scoperto la magia dell’ Opera: fondali dipinti che salivano e scendevano talvolta anche a strattoni, costumi sontuosi come nei film storici americani ma probabilmente poco filologici e con colori del tutto improbabili, interpreti che non avevano il fisico da top model. I più giovani si chiederanno: “Ma dov’ era allora la magia?”. La magia era nel fraseggio dei cantanti, nella loro capacità di cantare con fiati lunghi rispettando le dinamiche del compositore, nello scolpire recitativi, nel legare, nell’ attacco morbido e dolce del suono, nella proiezione della voce che si espandeva galleggiando nella sala avvolgendoti e facendoti sognare. E di questo stile Bergonzi era uno straordinario maestro. Poco importava che la mano destra si sollevasse a sottolineare il “suono coperto” e che l’ avambraccio sinistro rimanesse leggermente appoggiato all’ altezza del diaframma: quando Enzo/Bergonzi intonava “Cielo e mar” ci si trovava subito nella laguna veneta a contemplare le stelle aspettando trepidanti d’ incontrare la persona amata. L’ arte di Bergonzi, sia che interpretasse Manrico o Radamès o Edgardo o Rodolfo, consisteva nel saper commuovere, nel trasmettere emozioni, sentimenti, nel rendere viva ed evidente l’ intenzione del compositore con la magia della sua voce.

Dopo quella recita, lo ascoltai, per mia fortuna, ancora in molte altre, da Andrea Chénier a Luisa Miller, dal Trovatore alla Forza del destino da Aida (a La Scala con M. Caballè: i miei due idoli insieme!) fino all’ ultimo straordinario concerto dell’Opernhaus di Zurigo con il pubblico in delirio al termine del celebre “Non ti scordar di me”, il brano con cui Bergonzi amava concludere ogni suo concerto. All’ epoca di quel concerto zurighese, però, era già avvenuto un cambiamento: non ero solo più un’ appassionata d’opera e sua ammiratrice, ero diventata sua allieva e cantavo in quello stesso teatro dove lui si esibiva.

Ho immagini affastellate e confuse del concorso di voci verdiane cui partecipai e di cui Bergonzi era presidente della giuria: così tante persone, così tanta tensione, un’ ansia che era perfino più pesante della tremenda afa della pianura Padana. Una sola mi è rimasta impressa indelebile nella memoria: il suo sguardo e la sua mano sulla spalla prima che salissi sul palcoscenico, montato di fronte alla statua di G. Verdi, per cantare “Caro nome” alla finale del concorso. Un’ occhiata e un gesto che per me furono come una sorta di “iniziazione”, come se, pur nella mia inesperienza e immaturità, fossi stata comunque accettata in una cerchia. Anche in seguito il nostro rapporto Maestro/allieva continuò in questo modo: intuizioni che mi si svelavano grazie ai suoi sguardi e ai suoi esempi. Per questo per me è stato anche un padre spirituale. C’è una frase che rappresenta più di ogni altra il suo pensiero sul canto: la regia della parola: «Note e parole, diceva, non sono mai messe a caso dal compositore. Cantare significa conferire alle note e alle parole quel colore che trasmette l’emozione e il sentimento con cui il musicista ha composto».

D’ altra parte il Maestro Bergonzi portava nell’ insegnamento tutta la carica umana che lo aveva già distinto come artista, scevro da atteggiamenti da divo ma sempre leale e diretto: instancabile, pieno di passione ed energia dalla mattina alle 9.30 fino a sera tardi quando terminava le lezioni con gli allievi ormai in carriera che venivano per perfezionare un ruolo.

Perfezionare! Bergonzi ripeteva quel verbo continuamente: per trasformare la pietra grezza in un diamante bisogna lavorare con rigore, umiltà e amore. E lui, senza mai mettersi in mostra ma sempre con rispetto profondo per le peculiarità di ogni singolo allievo, sapeva donarti la gioia nel riuscire a emettere un suono così bello e morbido che, istintivamente, sentivi esser quello giusto. Certamente, tanto era pronto a gioire con te per una frase cantata bene era altrettanto schietto nel fustigarti per una nota non sul “fiato”. In quelle occasioni le imprecazioni emiliane echeggiavano come “All’armi” di Manrico!

Siamo sempre rimasti in contatto anche quando la salute gli ha impedito di proseguire l’ attività d’insegnante. Ci sentivamo al telefono, di tanto in tanto facevo una scappata a Milano per salutare lui e la signora Adele, sempre al suo fianco, inseparabile e instancabile, e facevamo lunghe chiacchierate sulle voci, la salute, la famiglia, la carriera, la politica, il teatro. … Fino all’ ultima volta, esattamente un anno fa, proprio per il suo compleanno.

Ancora adesso trovo difficile raccontare di quell’ ultimo incontro con lui in carrozzella, tormentato dai dolori che non gli davano tregua. «Vedi, non sono più io, Lojarro», esordì vedendomi. E, quando lo abbracciai per salutarlo, con un filo di voce, ben lontana dalla sua energica e vibrante, mi disse: «Io non sono più qui: voglio solo andarmene».

Ora, Maestro, sei dove desideri. Noi ti ringraziamo per il dono della tua arte sublime ed io, nel mio piccolo, per quella “Paterna mano” sulla spalla.

Zürich, 27 luglio 2014

Daniela Lojarro

 

 

 

NOTA BIOGRAFICA

Daniela Lojarro, cantante lirica, terapista e scrittrice, nata a Torino in una famiglia di tradizioni musicali, ha avviato parallelamente agli studi classici quelli di musica (pianoforte e canto con il M° E. Cassardo e il M° M. Braggio) diventando poi allieva di Carlo Bergonzi. Appena ventiduenne ha partecipato a diversi concorsi internazionali, fra i quali il concorso di Busseto per voci verdiane „A. Ziliani“ (premio speciale della giuria all’artista più promettente) e il „Giuseppe Verdi“ di Parma (I° premio). Proprio il concorso di Busseto le ha offerto l’ occasione del debutto nel ruolo di Gilda in Rigoletto. In seguito, ha cantato nei maggiori teatri italiani e stranieri. Alcuni brani da lei incisi sono entrati nelle colonne sonore di diversi film, fra i quali «The Departed» di M. Scorsese, «Il giovane Toscanini» di F. Zeffirelli e «I shot Andy Wharol» di M. Harron.

Nel 2009 ha completato la formazione accademica in Audio-Psico-Fonologia, secondo il metodo di Alfred Tomatis, una terapia di rieducazione della voce e dell’ascolto rivolta a persone con difficoltà nello sviluppo della lingua, sia parlata che scritta, oppure ad attori, cantanti, commentatori televisivi, insegnanti, manager che, lavorando con la voce, possono attraversare periodi di stress vocale.

Nel maggio del 2009 ha esordito in campo letterario, presentando alla Fiera Internazionale del Libro di Torino il suo primo romanzo, dal titolo «Il Suono Sacro di Arjiam», Edigiò collana Le Giraffe. La Case Books ha curato, invece, l’edizione digitale, suddivisa in tre parti: «Il Dono», «Il risveglio di Fahryon», «Il Cristallo del Tempo».

6 pensieri riguardo “Il “mio” Carlo Bergonzi. Un ricordo di Daniela Lojarro

  1. Cara Daniela, grazie per il tuo contributo, piu’ illuminante di tanti freddi commenti di taluni che , a mio avviso, snobbisticamente,sottolineano i limiti del grande tenore ( ma ascoltano i latrati dei tenori contemporanei ?)

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    1. Daniela ha scritto un post intenso e commosso, soprattutto evitando tutti quegli inutili paroloni di cui si sono riempiti gli articoli commemorativi. Penso in particolare alle dichiarazioni da parte di persone che in vita .. beh, lasciamo perdere

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  2. Bellissima e toccante testimonianza, nel ricordo di un grandissimo artista e insieme di un interprete che si dedicò al suo Verdi con l’umiltà paziente dell’artigiano perfezionista.

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    1. «Note e parole non sono mai messe a caso dal compositore. Cantare significa conferire alle note e alle parole quel colore che trasmette l’ emozione e il sentimento con cui il musicista ha composto». Questa riflessione, riportataci da Daniela nel suo post, dice tutto della sensibilità e dell’ intelligenza del grande Bergonzi. Preferisco ricordarlo così, invece di partecipare alla solita inutile gara di lodi ipocrite e autopsie vocali a freddo.

      “Basta, Carlo, on quai dì se vedaremm”.

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