Bayerische Staatsoper – Tosca

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Foto ©Wilfried Hösl

Fischi e proteste alla prima e anche alle repliche, parecchi spettatori che mormoravano Katastrophe! uscendo dalla sala per l’ intervallo e alla fine. Questa l’ accoglienza riservata dal pubblico della Bayerische Staatsoper al nuovo allestimento di Tosca, che veniva a sostituire quello già parecchio brutto di Jean Luc Bondy ed è sembrato addirittura peggiore negli esiti. Il teatro di München ha affidato la responsabilità della produzione al quarantanovenne regista ungherese Kornél Mundrunczó, che un anno e mezzo fa aveva già ideato la ben poco felice messinscena del Lohengrin. Nel campo del cinema Mundrunczó ha realizzato film di grande valore come Underdog (2014) e soprattutto lo splendido Pieces of a Woman del 2020, che ha ottenuto premi e nominations agli Oscar, al Golden Globe e al Festival di Venezia. Purtroppo per lui, l’ opera rispetto al cinema è tutt’ altra cosa perché il regista cinematografico è di fatto l’ autore del film mentre la regia lirica ha il compito di confrontarsi con un testo giá scritto che ha codici espressivi e indicazioni già stabilite dal suo creatore.

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Foto ©Wilfried Hösl

Affrontando la lettura del capolavoro di Puccini, un testo in cui le indicazioni sceniche del compositore sono molto precise e dettagliate, Mondrunczó ha semplicemente deciso di ignorare il problema e di raccontare un’ altra storia, diversa da quella originale. Così al posto della celebre cantante e del pittore giacobino suo innamorato perseguitati dal capo della polizia borbonica, quella che vediamo sulla scena è la raffigurazione di Pier Paolo Pasolini che nel 1975 sta girando il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma e ha una specia di liaison con un’ attrice, fatto che vorrebbe alludere alla famosa relazione platonica del regista friulano (che comunque era gay, cosa che Mondrunczò omette o ignora…) con Maria Callas che fu interprete del suo film Medea. Tra scene decisamente splatter come quelle della tortura e dell’ esecuzione di Cavaradossi, appeso a un gancio e mitragliato, alternate ad altre involontariamente comiche come quella di Angelotti che nonostante abbia paura di essere visto si aggira tra il personale della troupe e alla fine si nasconde all’ interno di un baule come Falstaff, il racconto scenico sembra scorrere disinteressandosi completamente della musica, rispetto alla quale in molti punti si pone addirittura di traverso. In sostanza, uno spettacolo fatto per piacere ai critici modaioli fans delle regie strampalate, i quali trascorrono la loro inutile e petulante esistenza a disquisire di una cultura artefatta e marinista, che ha sostituito il bar del dopolavoro ferroviario con il Bar Crillon. Ma per quanto loro si illudano, sempre di bar si tratta.

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Foto ©Wilfried Hösl

Di solito, quando ci si trova di fronte a papocchi del genere la reazione mia e di molti altri spettatori è quella di concentrarsi sui pregi della parte musicale, che purtroppo in questo caso era anch’ essa non del tutto soddisfacente. Andrea Battistoni, trentaseienne direttore veronese al quale la Bayerische Staatsoper assegna spesso la guida musicale dei titoli del repertorio italiano, ha un braccio sicuro ma troppo spesso pesante e nei momenti di massima drammaticità tendeva a pestare più del dovuto sulle sonorità orchestrali. Anche da punto di vista interpretativo la sua lettura non mi è sembrata particolarmente interessante, a parte una certa carica passionale nei duetti d’ amore. In definitiva, una direzione routinier nella quale spiccava solo la bella qualità del suono esibita dalla Bayerische Staatsorchester e decisamente al di sotto delle esigenze richieste da una partitura che richiede grande senso del teatro e capacità di tenere in tensione il ritmo narrativo che spesso assume le caratteristiche di un vero e proprio thrilling.

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Foto ©Wilfried Hösl

Le cose più pregevoli nella compagnia di canto si sono ascoltate dalla Tosca di Eleonora Buratto. La quarantaduenne cantante mantovana, che con questa produzione faceva il suo esordio alla Bayerische Staatsoper, ha messo in mostra una voce di bel timbro e buona espansione, con acuti luminosi e penetranti, gestita molto bene grazie a un controllo tecnico rifinito. Una protagonista dai toni di intensa passionalità, che nel Vissi d’ arte ha cantato in maniera davvero coinvolgente ricevendo l’ unico grande applauso a scena aperta della serata. Deludente rispetto alle mie aspettative il Cavaradossi del tenore italoamericano Charles Castronovo, un cantante da cui avevo ascoltato cose abbastanza pregevoli in ruoli di tipo lirico. La voce è di bel colore scuro nel settore medio e il cantante la usa con una certa perizia di emissione, anche se il registro acuto non è luminosissimo perché al di sopra del FA il suono non “gira”, come si dice nel gergo degli appassionati e quindi le note alte suonano forzate. In questo caso, alle prese con un’ orchestrazione densa come quello di Puccini, lo strumento del tenore newyorkese suonava sotto sforzo e il timbro spesso appannato. Il baritono marsigliese Ludovic Tèzier è uno tra i pochi esponenti attuali della sua corda capaci di cantare invece che di urlare. Il suo Scarpia era semza dubbio apprezzabile per la linea di canto molto corretta e composta, unita a un fraseggio sobrio e del tutto privo di gigionismi. Non molto da segnalare per quanto riguarda le parti di fianco, dalle voci piuttosto grige e anonime. Alla fine, applausi convinti per i protagonisti vocali di una serata che a me personalmente ha lasciato i soliti interrogativi su cosa sia diventata oggi la parte scenica del teatro lirico.

Volendo sintetizzare il mio pensiero in poche righe, per me le serate come questa di München sono i casi in cui la regia unita alla presenza del Dramaturg (che, se ho capito bene dopo tanti anni che vivo in Germania, è colui che ha il compito di biffare il libretto per scrivere una storia alternativa cui applicare la colonna sonora della musica) fa solo danni senza aggiungere nulla di interessante. A volte il prodigio accade (diciamo quattro o cinque volte su 100, come nel caso del Tannhäuser di Tobias Kratzer a Bayreuth), mentre nella stragrande maggioranza dei casi lo stravolgimento della vicenda  originale si accompagna all’ imperizia registica. Come se ne esce? Semplicemente aspettando che la moda passi, e che i registi e i Dramaturgen ricomincino a lavorare seriamente sull’ unità di testo poetico e di musica, senza volere a tutti i costi sostituire una drammaturgia originale con un’ altra, quasi sempre meno interessante. Passerà, la moda delle regie balorde. Negli anni Settanta si mangiavano le penne alla vodka, con panna e salmone, e sembravano gran cosa. Negli anni Ottanta trionfò la rucola con i gamberetti. Oggi è il turno del Dramaturg, che tra pochi anni farà la fine delle penne e della rucola. Nel frattempo è il caso che i veri uomini e donne di teatro comincino a lavorare su ciò che testo (sì, intendo proprio le vituperate didascalie, sulle quali e con le quali i compositori hanno scritto le note) e musica, nella loro inscindibilità, determinano: di loro, e non dei praticoni che vediamo all’ opera nei teatri di oggi, è il futuro.

2 pensieri riguardo “Bayerische Staatsoper – Tosca

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