Antonio Juvarra – “La formula del belcanto di Gasparo Pacchierotti”

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Di nuovo puntualmente, iniziamo il mese di luglio con il consueto articolo di Antonio Juvarra, che questa volta si occupa di una grande figura di belcantista. Buona lettura a tutti gli interessati.

LA FORMULA DEL BELCANTO DI GASPARO PACCHIEROTTI

Tra i tanti aneddoti che fioriscono sui cantanti, ce n’ è uno che è giunto fino a noi grazie a Stendhal, il quale racconta come durante una recita dell’ Artaserse di Bertoni il primo soprano, dopo aver cantato un’ aria, vedendo che l’ orchestra non riprendeva e avendo chiesto spazientito al direttore d’ orchestra: “Ma che fate?”, si sentì rispondere da questo singhiozzante: “Piangiamo” e si trovò di fronte allo spettacolo surreale dei musicisti dell’ orchestra, “nessuno dei quali”, spiega Stendhal, “aveva pensato ad attaccare perché tutti con gli occhi pieni di lacrime e fissi sul cantante”. Quel primo soprano era il castrato Gaspare Pacchierotti, il Farinelli della seconda metà del Settecento, definito “modello del grande metodo italiano” da Vigée-Lebrun, “cantante divino” da Rossini, “anima che canta all’ anima” dallo stesso Stendhal. A lui dobbiamo la famosa massima:

“Chi sa ben respirare e ben sillabare, saprà ben cantare.”

In essa è condensata come in una formula il segreto del canto a risonanza libera di tradizione italiana: il giusto respiro, il giusto dire e la loro giusta interrelazione, ovvero la trinità del canto. A questo punto la prima domanda che inevitabilmente si pone è: di quale giusto dire e di quale giusto respiro si tratta? Incominciamo dal primo elemento del binomio: il dire. Uno dei principi belcantistici riproposti dai più grandi cantanti di tradizione italiana (Caruso, Pertile, Schipa ecc.) è quello della pronuncia “semplice e naturale”, “non caricata”, “non affettata”. Ora la pronuncia naturale reale (che non è quella che noi ci immaginiamo che sia) è una pronuncia essenziale, minimale. È questa sua naturale minimalità che consente il trapianto dell’ essenza del suono dallo spazio limitato del parlato a quello ‘senza pareti’ del vero canto. Invece, ogni intenzione di ‘migliorare’ o ‘evidenziare’ ‘artisticamente’ la pronuncia ha come effetto un allontanamento dalla fluidità dinamica del parlato naturale e un rafforzamento delle ‘pareti’ dello spazio di risonanza, appunto ‘limitato’, del parlato.

Purtroppo l’ ideologia tecnologica oggi dominante, che ha invaso anche il campo del canto, tende a svalutare radicalmente il concetto e il principio di naturalezza (che invece formava il fondamento della scuola di canto belcantistica di tradizione italiana), sostituendolo con un ingenuo mito demiurgico. In base a questa ideologia il modo di parlare della maggioranza delle persone sarebbe scorretto e quindi necessiterebbe dell’intervento ‘tecnico’ preliminare dell’insegnante, che lo ‘corregge’. In questo modo si ignora che a creare il canto non è il parlato in toto, ma quelle due componenti del parlato, rappresentate dall’ autoavvio del suono per concepimento mentale immediato e dal semplice movimento articolatorio AUTOMATICO con cui, parlando, si passa da una vocale alla successiva.

Questo movimento essenziale si può definire perfetto per natura, ovvero dotato di quella funzionalità tipica di ogni gesto motorio naturale, la cui perfezione è dimostrata dal fatto auto-evidente che non è superabile da nessun atto meccanico e ‘tecnico’. Per averne la prova basta proporsi di parlare disattivando il servomeccanismo dell’ articolazione naturale (che è quello che ci consente di parlare in modo naturalmente veloce e fluido) e fare noi attivamente e ‘manualmente’ i singoli movimenti articolatori: il risultato sarà un rallentamento del tempo di articolazione, la trasformazione della linea melodica del parlato naturale in segmentazione robotica e, soprattutto, un indurimento e un indolenzimento dei muscoli della mandibola, che rappresentano, non a caso, l’ esito ‘funzionale’ di molte tecniche vocali e ‘articolatorie’ applicate al canto. Da qui i paradossali inviti, rivolti agli studenti di canto, a ‘rilassare’ la mandibola e la lingua, e addirittura a rieducarle, invito insensato in quanto presuppone che la causa della disfunzionalità risieda in questi organi in sé e per sé, invece che nella tecnica vocale sbagliata che li costringe a funzionare in maniera difettosa, da perfettamente funzionanti che erano e sono parlando. La logica di questi ‘interventi’ insomma si avvicina molto a quella di chi trasmettesse una malattia a una persona sana per poi ‘curarla’.

È grazie al ‘trapianto belcantistico’ del seme del suono parlato (che, abbiamo visto, consiste essenzialmente nell’ articolazione come processo dinamico o ‘principio motorio’ naturale) in uno spazio più ampio (che non è quello del parlato), che automaticamente spariscono anche gli accenti regionali e gli eventuali ‘difetti’, come la nasalità e la gutturalità, riscontrabili nel parlato di alcune persone. In questo modo non c’ è più bisogno di ricorrere a procedure meccaniche pseudo-logopediche per eliminare certi difetti e neppure di nascondere il proprio accento regionale con una ‘corretta’ (?) ‘dizione’, procedura che è di per sé qualcosa di innaturale e quasi un allontanarsi da sé stessi. (Come controprova, basti pensare ai cantanti citati all’inizio, Caruso, Pertile e Schipa, di nessuno dei quali, cantando, è rilevabile l’ accento, rispettivamente napoletano, padovano e leccese, del loro luogo di origine e tutto ciò senza che essi, cantando, si siano mai proposti né mai abbiano avuto bisogno, per i motivi esposti, di nascondere ‘tecnicamente’ il loro accento regionale).
In sintesi, l’ articolazione naturale parlata diventa il sintonizzatore automatico della voce, non se viene concepita e realizzata come ‘dizione corretta’ o come parlato ‘perfezionato’ (il che favorisce un controllo meccanico ‘statico’ e rigido), ma se rimane semplice e autentico ‘dire’, momento dinamico, che, in quanto naturale, non ha bisogno di essere ‘perfezionato’, essendo già perfetto, ma solo collegato col giusto respiro, giusto respiro che a sua volta crea il giusto spazio di risonanza.

La tendenza mentale con cui determinati processi naturali globali vengono interpretati racchiudendoli negli schemi rigidi della razionalità, si manifesta nel canto anche con l’ idea secondo cui l’ articolazione nel canto andrebbe riportata volontariamente a quel piano frontale delle labbra e del palato duro che da un secolo viene mitizzato col concetto di ‘avanti’ o ‘fuori’. Di qui gli esercizi finalizzati a portare o tenere ‘avanti’ la pronuncia, basati su sequenze di sillabe come ma-ma-ma-ma, ne-ne-ne-ne-ne, bo-bo-bo-bo ecc. Ora se questa assolutizzazione della dimensione del suono ‘avanti’ o ‘fuori’ avesse un fondamento reale, noi percepiremmo un improvviso smorzamento del suono in corrispondenza con vocali foneticamente posteriori come la O e con vocali precedute da consonanti arretrate come la K e la G, il che evidentemente non accade né parlando né cantando. In altre parole, secondo queste teorie il motivo per cui, se uno ci dice “vieni qui!”, noi sentiamo perfettamente quello che ci viene detto, è che le vocali della frase sono tutte anteriori, ma se questo fosse vero, allora dovrebbe succedere che se invece ci dicesse “buon giorno!”, frase con tutte vocali posteriori, noi dovremmo sentire poco o niente e magari dovremmo rispondere: “che cosa hai detto?”, cosa che evidentemente non succede perché invece noi capiamo perfettamente anche frasi costituite solo da vocali posteriori e consonanti arretrate.

L’ iperattivazione meccanica della componente frontale dell’ articolazione porta così a nascondere e ad aggravare la vera causa della sua disfunzionalità, semplicisticamente individuata nel fatto di non essere abbastanza ‘avanti’. Il risultato sarà la meccanizzazione dell’ articolazione naturale parlata, la rigidità diffusa e l’ impossibilità cantando di far ‘sbocciare’ lo spazio morbido arretrato, che è l’ unico a poter conferire rotondità al suono. Avendo preso atto del fatto obiettivo che la brillantezza e il focus della voce (parlata e cantata) non sono originati né dal fatto di portare intenzionalmente ‘avanti o ‘fuori’ il suono (tanto meno di immaginarlo già ‘fuori’) né dal fatto di attivare volontariamente (o peggio ancora accentuare) i movimenti articolatori delle labbra e della punta della lingua (cose che non ci sogniamo affatto di fare parlando!), potremo avvicinarci alla vera causa di quella componente del suono che conosciamo col nome di focus e brillantezza. Essa è rappresentata appunto dal rispetto dei micromovimenti naturalmente sciolti ed essenziali del parlato e dell’asse CIRCOLARE-ORIZZONTALE su cui il processo dinamico dell’ articolazione parlata naturale si svolge. Questi due fattori sono la vera fonte di quella dimensione del suono che nei secoli è stata di volta in volta chiamata “chiarezza”, “limpidezza”, “squillo”, “brillantezza”, “smalto”, “focus”, “concentrazione”, “raggio laser”, “formante del cantante” ecc. ecc. La percezione della frontalità andrà pertanto interpretata come uno dei riflessi della componente del suono chiamata brillantezza (la cui causa profonda è quella sopra esposta) e NON creata artificialmente, portando il suono e/o l’articolazione ‘avanti’.

Occorre ricordare che il “ben sillabare” di Pacchierotti (che, come abbiamo visto, non è altro che il semplice ‘dire’) è fondamentale per la creazione non solo della perfetta sintonizzazione del suono, ma anche di quella nobile forma estetica che è il legato.
Dobbiamo a Francesco Lamperti un principio del belcanto che dice: “chi non lega non canta”. A questo punto la domanda è: e come si fa a legare? Le cause del legato sono, ancora una volta, due: la respirazione e, appunto, l’ articolazione. Volendo limitarci qui alla seconda causa, l’ articolazione, si può approfondire il discorso, partendo da questa constatazione: parlando, noi leghiamo perfettamente le varie sillabe di cui è composta una frase, checché ne dicano in proposito gli utopisti della pronuncia ‘corretta’ e ‘perfezionata’, perché fuorviati dalla naturale velocità con cui parliamo, ciò che suscita l’ ILLUSIONE del continuo cambiamento di ‘posizione’ delle vocali. Come abbiamo visto, questa velocità è resa possibile solo dalla perfezione del movimento articolatorio naturale, il quale a sua volta è reso possibile solo dal rispetto della sua natura di SERVOMECCANISMO naturale. Affinché nel canto si crei il legato occorre che si mantengano assolutamente in primo luogo i MICROMOVIMENTI con cui si realizza la pronuncia naturale, e in secondo luogo il giusto rapporto esistente tra vocale e consonante.

Ora però che cosa succede cantando? Che il cantante è tentato di accentuare meccanicamente l’ articolazione delle consonanti, facendole ‘esplodere’, allo scopo o di migliorare e rendere più comprensibile la dizione o di aumentare artificialmente la potenza del suono e rendere più ‘drammatica’ l’ espressione. Il risultato allora sarà il suono spinto e la distruzione del legato, e occorre sapere in proposito che dal punto di vista tecnico-vocale questo tipo di pronuncia ‘scolpita’ (e fatta a pezzi) si pone allo stesso livello tecnico-vocale ed estetico dei suoni fatti col ‘vocione’ dal bambino che vuole imitare il cantante lirico. Perché non è utilizzabile l’ espediente della pronuncia ‘scolpita’, che sarebbe come se un violinista, per rendere più intenso il suono, premesse di più sulla tastiera invece che sull’ arco? Perché in questo modo la consonante, ingrossata, ‘mangia’ lo spazio della vocale ed è su questo apparente ‘allungamento’ delle vocali che si basa il legato. Perché definisco ‘apparente’ questo allungamento? Ovviamente non mi riferisco all’ allungamento derivante dal fatto che nel canto le vocali di una frase durano di più che nel parlato perché associate alla musica, ma mi riferisco a quell’ ulteriore allungamento che è appunto quello che crea l’ effetto del legato e che è reso possibile solo dal mantenimento del giusto rapporto tra vocale e consonante, quale GIA’ esiste parlando, anche se non ne siamo consapevoli. Sia nel parlato sia nel canto di alto livello, alias belcanto, noi foniamo sulle vocali e lasciamo che le consonanti si facciano da sole con un movimento lieve ed essenziale. In questo modo le consonanti non sono più dighe che separano una vocale dall’altra, ma sono PONTI, che lasciano scorrere sotto di sé il fiume vocale-vocalico. Da qui scaturisce il fenomeno del legato e questo spiega perché in base ai principi della scuola del belcanto la voce si sviluppa con i VOCALIZZI e non con i ‘consonantizzi’ e neppure con gli esercizi di parlato intonato. Esercitando la voce sui vocalizzi , uno si abitua a vedere e a cantare sempre sulle vocali e non sulle consonanti. Questo non significa, come si potrebbe pensare, trascurare le consonanti, ma, al contrario, significa rispettarle nel loro vero ruolo di semplice e lieve collegamento tra vocali (CON-SONANTE appunto).

Un fenomeno completamente diverso dalla ‘pronuncia scolpita’ è il declamato drammatico, realizzato con la tecnica del belcanto. In questo caso le consonanti non sono più accentuate e fatte esplodere direttamente, ma quello che accade è che, come conseguenza dell’ immersione in una data situazione musicale e drammatica, la pronuncia DA SOLA indirettamente si anima, nel qual caso il movimento articolatorio, pur ‘animandosi’, rimane sciolto ed essenziale, cosa che rende possibile il mantenimento di un certo grado di legato, pur trattandosi di un declamato.

A questo punto, una volta chiarito il vero significato dell’espressione “ben sillabare” della massima di Pacchierotti citata nel titolo (che nell’ italiano antico significava semplicemente ‘dire’ e non, come suggerisce l’ accezione moderna di questo verbo, ‘scandire’ le sillabe), passiamo alla seconda componente della formula, il “ben respirare” e la domanda che si pone è: quale sarà il giusto respiro che crea il giusto spazio del canto? La risposta è: nient’ altro che il respiro ampio, morbido e, ovviamente, non meccanico, di gesti naturali come il sospiro di sollievo e la boccata d’ aria rigeneratrice. Infatti solo con l’ ampiezza dell’inspirazione (passiva), insita in questi gesti, si riesce a trapiantare il seme del parlato (cerchio piccolo) nello spazio più grande e senza pareti del canto (cerchio grande che contiene in sé il cerchio piccolo). Tutti gli altri metodi, che implicano una meccanizzazione di una delle due componenti del canto (l’ articolazione e la respirazione), impediscono la loro naturale fusione armonica e determinano una subordinazione (invece che una coordinazione) di un elemento rispetto all’ altro, subordinazione che è causa di rigidità e tensioni del corpo e di distorsioni acustiche più o meno gravi. Questo per lo stesso principio per cui il trapianto nel corpo di un elemento estraneo all’organismo, provoca una immediata reazione di rigetto. Nel caso della respirazione (che è il processo naturale che crea anche lo spazio della cosiddetta ‘gola aperta’), a causare il rigetto sono tutte le respirazioni anatomiche, elaborate dalla foniatria nel corso di un secolo e mezzo: dalla respirazione addominale, a quella diaframmatico-addominale, a quella costo-diaframmatico-addominale a quella pelvico-costo-diaframmatico-addominale, tutte basate sulla follia del dividere e poi illudersi di poter riattaccare tra loro i pezzi divisi.

Per distinguere la respirazione naturale superficiale del parlato da quella naturale profonda del canto, i cantanti di tradizione belcantistica (da Mengozzi a Caruso) hanno sempre parlato di respiro ‘a pieni polmoni’, ma poi arrivarono i foniatri a dire che quel respiro era pericoloso (?) e purtroppo ci si misero anche persone intelligenti come la Lehmann a introdurre la fobia moderna dei respiri ampi, che ‘ingolfano d’ aria’, da cui il concetto di respiro ‘normale’ della Rohmert e di Seth Riggs e, peggio ancora, la prescrizione di attaccare il suono sull’ aria residua di foniatri come Marafioti. Ora certamente anche il respiro normale è un respiro naturale e rilassato, ma essendo quel respiro nient’ altro che il respiro del parlato e dovendo del parlato già mantenere nel canto il nucleo del suono perché sia puro, è ovvio che dalla somma di due cose uguali non potrà mai scaturire il nuovo, ovvero, nel nostro caso, il canto.

In effetti, a ben vedere, il problema del ‘respiro che ingolfa’ nasce solo se l’ attenzione è rivolta al fine di immagazzinare attivamente e direttamente l’ aria, dopodiché inconsciamente il fine diventerà quello di trattenerla affinché il suono non si ‘sporchi’ (?) d’ aria, magari garantendo il cosiddetto ‘attacco simultaneo’, altra nevrosi foniatrica basata sull’ ossessione del controllare che la fuoriuscita del fiato non preceda l’ inizio del suono, ma coincida con esso (?!), ossessione totalmente inesistente, tanto per cambiare, quando parliamo. (Si pensi a questo moderno paradosso: il suono è fatto d’ aria, ma noi dovremmo preoccuparci che il suono non si ‘sporchi d’ aria’. Come dire: “Sì, vai pure a nuotare, ma non bagnarti, mi raccomando”). Invece ciò che bisogna pensare è che l’ ingresso dell’aria non sia il primo fine dell’ inspirazione, ma solo un EFFETTO collaterale (indiretto, come sempre succede nel canto) della distensione profonda che nasce se il respiro è nato con questa modalità ‘naturale globale’(sul modello della boccata d’ aria rigeneratrice e del sospiro di sollievo). Questa distensione profonda, questo reset periodico delle tensioni del corpo, che coincide con la vera inspirazione, è anche quell’ atto naturale che disattiva il riflesso condizionato di contrazione/chiusura salendo nella zona acuta e consente il fenomeno dello spazio di risonanza che ‘sboccia’ e apre la gola in modo disteso ed elastico e non rigido e forzato. (Riferendosi a questo fenomeno, i belcantisti parlavano di “voce spiegata”, concetto evidentemente del tutto estraneo alle moderne concezioni dell’ aumento dello spazio di risonanza ‘per allungamento’, con conseguente creazione di ‘tubi verticali’ e relativo ‘intubamento’ del suono.)

L’ aria entra ed esce come vuole, come quando parliamo, e non bisogna fare niente né per trattenerla né per indirizzarla o spingerla, tanto meno per “pressurizzarla”, che è una delle perversioni meccanicistiche generate dall’ intellettualismo foniatrico. Occorre solo lasciarla fluire liberamente, il che accadrà automaticamente se permane la sensazione del suo naturale fluire. A questo punto l’ aria cessa di essere un problema e diventa un PIACERE, cessa di essere un’ imposizione e diventa una libertà. Questo è il significato vero della prescrizione belcantistica di respirare pensando di annusare un fiore, prescrizione purtroppo subito trasformata dalla miopia delle menti moderne in divieto di respirare con la bocca, mentre il suo vero significato è: se respiri pensando al piacere del respiro, l’ attenzione verrà deviata dal fine meccanico di immagazzinare aria (o, peggio ancora, dell’immagazzinare il ‘giusto’ quantitativo d’ aria) e la respirazione si realizzerà da sola avendo quelle caratteristiche di calma e distensione profonda, che deve avere la respirazione del canto. In questo modo è possibile prescindere totalmente dal parametro quantità d’ aria (grande o piccola che sia), evitando così di imboccare i due vicoli ciechi creati da ogni falso dilemma, vicoli ciechi che in questo caso sono: 1- immagazzinare tanta aria PER realizzare la respirazione ‘a pieni polmoni’ dei belcantisti; 2- immagazzinare poca aria PER NON ‘ingolfarsi’ d’ aria, come prescrivono i foniatri…

In effetti il concetto tradizionale di respirazione ‘a pieni polmoni’ non è finalizzato, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, ad immagazzinare tanta aria, e questo per il semplice motivo che, se così fosse, essa sarebbe pressoché inutilizzabile cantando, dato che la maggioranza dei respiri del canto sono respiri rubati, cioè parziali. Il vero senso dell’ espressione respirazione a pieni polmoni (o, per meglio dire, ad ampi polmoni) è quindi quello di risvegliare il riflesso naturale di distensione profonda del corpo, che è associato non ai respiri superficiali del parlato, ma a quelli profondi e globali della boccata d’ aria e del sospiro di sollievo, e che, come abbiamo visto, è quello che crea la percezione della gola aperta e dello spazio che dà rotondità al suono. Dopodiché, col tempo, questo riflesso di distensione verrà suscitato anche con i respiri parziali e non solo con i respiri pieni. Pertanto se il pensiero è: inspirando mi distendo in profondità, indipendentemente da quanta aria inspiro e da quanta aria esce nell’ espirazione, allora la respirazione profonda rimarrà naturale e diventerà anche la respirazione che crea il canto. A questo punto la giusta relazione dinamica tra questi due processi naturali (il dire e il respirare) creerà anche l’ effetto naturale della voce che si autosostiene, cioè dell’ appoggio, regolando perfettamente (e automaticamente) la fuoriuscita del fiato.

Questo fenomeno naturale, l’ appoggio della voce, in epoca tecnologica e attivistica come la nostra è stato purtroppo totalmente travisato e interpretato come ‘pressurizzazione volontaria’ dell’aria, moderna illusione demiurgica, impossibile da realizzarsi direttamente, ma che i cantanti si sforzano ugualmente di realizzare, ricorrendo al grottesco surrogato dell’ attivazione di antagonismi muscolari superflui. In realtà l’ appoggio nasce come emanazione della dinamica ‘a due tempi’ del sospiro di sollievo, che rappresenta un vero e proprio ‘passo del respiro’ ovvero: inspirando il torace sale leggermente (come camminando il ginocchio si alza) e nell’ espirazione scende, e su quel movimento parabolico discendente ‘appoggio’ il primo suono (come camminando, dopo aver sollevato il piede per fare un passo, lo appoggio per terra).

In che modo un concetto chiarissimo come ‘appoggio’ sia stato scambiato e sostituito con un concetto dal significato opposto come ‘torchio addominale’ o ‘sostegno’, rimane uno dei tanti misteri dolorosi dell’ attuale didattica vocale, ma sicuramente tra le sue cause c’ è il divieto foniatrico di alzare il torace in fase inspiratoria per concentrarsi sul movimento (contrario!) di abbassamento del diaframma. Basta applicare questa logica al processo dinamico naturale del camminare e se ne riscontreranno subito gli effetti grotteschi: potremo solo strisciare i piedi. Nel canto invece potremo solo schiacciare attivamente o pressare attivamente in basso il suono, che è la logica del cosiddetto ‘affondo’.

Come rimedio a questo squilibrio molti consigliano di ‘sostenere’ il suono, facendo rientrare attivamente e volontariamente il suono, che rappresenta il classico passare dalla padella nella brace. In tal modo rimaniamo sempre nella logica del facchino: non a caso il facchino non si ‘appoggia’ all’ oggetto che deve trasportare, ma lo ‘solleva’ attivamente e faticosamente. È evidente quindi che affinché si abbia vero appoggio (e non il suo opposto paradossale) basta stabilire la giusta relazione e il giusto contatto tra l’ oggetto che deve appoggiarsi (nel nostro caso la voce) e il piano d’ appoggio su cui deve appoggiarsi (nel nostro caso la muscolatura respiratoria), dopodiché l’ appoggio sarà un fenomeno che ‘avviene’ e non che ‘facciamo’.

L’ appoggio respiratorio scambiato per lavoro atletico-muscolare non è che uno dei tanti inganni cognitivi, paradossalmente generati dalla moderna ‘scienza del canto’, cioè dalle moderne sirene culturali. Per non cadere nell’ inganno fatale e letale delle sirene il mito conosceva due rimedi: farsi legare all’ albero della nave come fece Ulisse oppure tapparsi le orecchie con la cera, come fecero i suoi compagni di avventura. Nel caso delle moderne sirene culturali del meccanicismo foniatrico il rimedio è: prendere finalmente e profondamente coscienza che la dimensione plurisensoriale e sensomotoria del corpo del cantante non ha niente a che fare con la dimensione razionale, astratta, muscolare ed esterna del corpo dell’ anatomia.

Antonio Juvarra

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