Antonio Juvarra – Il “canto sul fiato” e la respirazione naturale globale del belcanto

Questo mese, la rubrica di Antonio Juvarra ci propone un denso e dettagliato studio sulla respirazione naturale presupposta e prescritta dallo stile belcantistico. Il saggio merita una lettura attenta e io ringrazio come sempre Antonio per la sua collaborazione.

IL ‘CANTO SUL FIATO’ E LA RESPIRAZIONE NATURALE GLOBALE DEL BELCANTO

La scuola del belcanto ha sempre considerato il respiro come la chiave di accesso, la scala grazie a cui si ascende dal piano terra del parlato ai piani alti del canto. “Scuola del respiro” era chiamato dai belcantisti lo studio del canto, ma la domanda che si pone, è: perché questa formula oggi non funziona più? Per un motivo molto semplice: la trasformazione della ‘scuola del respiro’ (dove era il cantante ad andare a lezione dal respiro e non viceversa), in ‘scuola dei muscoli respiratori’ (dove questi diventano oggetto di cervellotiche ‘tecniche’ di addomesticamento). Respirare è una di quelle cose che non abbiamo bisogno di imparare, perché è parte sostanziale di noi, tant’è che ‘spirito’, ‘psiche’ e ‘anima’ etimologicamente significano la stessa cosa: ‘fiato’, ‘soffio’, ‘respiro’ appunto. Il respiro non è qualcosa che si ‘fa’. E’ sbagliato dire: “Respiro un respiro”. L’idea giusta è: “Il Respiro mi respira…” Oppure: non FACCIO un respiro, ma ASSAPORO un respiro. Il respiro è come un’ onda che sale dal centro del corpo fino alla sommità del petto per poi discendere, onda che, come fa il surfista, puoi solo cavalcare, ma non ‘controllare’. Esistono due respirazioni naturali, ossia due vere respirazioni: quella superficiale del parlato e quella globale di quando siamo al mare o in montagna. A creare il canto è quest’ ultima. La vera respirazione non è una somma di controlli muscolari localizzati, ma un movimento fluido dell’ energia, creato da un processo dinamico, cioè da un gesto naturale globale, composto da due momenti, inspirazione ed espirazione, che appartengono a due diverse dimensioni dell’essere.

Per quanto riguarda l’ INSPIRAZIONE, che è il presupposto della giusta espirazione cantata, la sua natura è quella di un momento passivo di distensione-espansione-elevazione, quale è percepibile in atti naturali come il sospiro di sollievo, che rappresenta appunto il modello di respirazione del canto. Una volta realizzato questo naturale reset che nasce nel centro del corpo, si lascia che le sue ‘onde di distensione’ si estendano fino alla gola, creando lo ‘spazio senza pareti’ del canto. Il suono allora nascerà spontaneamente sul movimento naturale dell’ ESPIRAZIONE, che rappresenta la fase discendente della parabola del sospiro di sollievo, senza nessun tentativo di mantenere staticamente la stessa apertura della fase inspiratoria, ma rimanendo sulla scia della sua SENSAZIONE di distensione, e senza nessun tentativo di fermare l’aria per far coincidere l’inizio del suono con l’inizio dell’ espirazione.
Questo mirabile fenomeno acustico-aerodinamico ed estetico storicamente ha preso il nome di ‘canto sul fiato’, espressione rivelatrice che pare risalga al castrato Crescentini e che fu ripresa poi dal maestro di canto ottocentesco Francesco Lamperti, il quale ne fece il fondamento del concetto tecnico-vocale di ‘appoggio’.

Al giorno d’oggi l’ espressione ‘canto sul fiato’ rappresenta uno dei pochissimi concetti sopravvissuti alla cultura del belcanto che la creò, ma purtroppo essa rimane ‘disattivata’ e quindi non può agire come fattore tecnico-vocale, rimanendo un puro flatus vocis. La sentiamo spesso in bocca a ‘specialisti del settore’, che però ne ignorano totalmente il significato e la usano come semplice orpello da esibire come segno della propria competenza in materia tecnico-vocale. In realtà questa espressione rappresenta una sorta di stele di Rosetta, che consentirebbe l’ immediata decifrazione degli enigmi della tecnica vocale belcantistica, se solo non venisse lasciata a far da soprammobile nei vari studi di canto (di indirizzo ‘empirico’ o ‘scientifico’). Questo nei casi in cui non se ne tenti un’ interpretazione, nel qual caso la situazione si aggrava: l’ ‘interpretazione’ infatti consiste quasi sempre nel piegarne il significato ai moderni luoghi comuni della didattica meccanicistico-foniatrica. Il primo ‘adattamento’ consiste nel sostituire la preposizione ‘SUL’ con la preposizione ‘COL’ o con la preposizione ‘DI’, il che è sufficiente per trasformarla da una verità illuminante in una banalità scontata, essendo evidente che non si può cantare se non con il fiato. Risibili poi quelli che utilizzano questa espressione per propugnare il suo opposto, un canto sul ‘fiato residuo’, cioè a espirazione quasi completata: in sostanza un ‘canto asfittico’ o ‘asmatico’, che non è propriamente l’ ideale per chi si accinge a studiare canto. A questo punto è naturale chiedersi: perché cantare ‘SUL’ fiato e qual è il significato di un essere ‘sopra’ e non ‘sotto’ il fiato? La spiegazione sta nella natura di onda (quindi ascendente-discendente) del respiro. Se, come abbiamo visto, l’ inspirazione corrisponde al ‘levare’, cioè alla fase ascendente dell’ onda del respiro, è chiaro che la nascita del suono (che ovviamente avviene nel momento non dell’ inspirazione, ma dell’ espirazione), coinciderà invece con la sua fase discendente ed ecco perché la percezione sarà quella di un suono che nasce appunto SUL fiato, il che significa sul MOVIMENTO naturale dell’ espirazione. Questo comporta che il fiato deve essere lasciato libero di fluire, INDIPENDENTEMENTE dal fatto che l’ avvio del suono generi ANCHE un senso di contatto con la base elastica respiratoria. La COESISTENZA di un momento dinamico e di un momento statico (qualcosa FLUISCE e qualcosa GALLEGGIA) è stata messa in luce molto bene sia dal castrato Mancini nel Settecento, sia dal soprano Lilli Lehmann nel Novecento, e questo è il motivo per cui è nata l’espressione ‘canto SUL FIATO’ e non ‘canto CON I MUSCOLI’ (come sicuramente sarebbe accaduto se a decidere la terminologia vocale fosse stata la genialità moderna). A questo punto risulta immediatamente chiaro anche il motivo per cui la nozione di ‘canto sul fiato’ è divenuta oggi un relitto inservibile: essendo stata azzoppata la respirazione col divieto folle dell’ innalzamento del torace in fase inspiratoria, è semplicemente IMPOSSIBILE percepire il suono che nasce ‘sul fiato’. Il che è ovvio: se mi è stato insegnato che camminare vuol dire strisciare i piedi per terra, non capirò mai cosa vuol dire ‘fare un passo’, cioè sollevare e APPOGGIARE il piede SUL pavimento camminando.

La seconda mossa ermeneutica farlocca con cui è stata resa inspiegabile e inutilizzabile la nozione di ‘canto sul fiato’, è quella di considerare il termine ‘fiato’ come sinonimo di ‘muscolatura respiratoria’ e a questo punto ci ritroveremo trasportati di colpo nello spazio angusto della foniatria artistica, quella che ha appunto degradato la belcantistica ‘scuola del respiro’ in moderna ‘scuola dei muscoli respiratori’. È incredibile come la moderna credenza ‘scientifica’ in quelle entità puramente intellettuali chiamate ‘muscoli’, abbia preso sempre più il sopravvento, portando alla creazione di una ‘muscolologia’ o, se si preferisce, ‘miologia’ vocale, che ha lo stesso rapporto con la realtà del canto che un trattato teologico medievale sulla transustanziazione può avere con la vita di ogni giorno. Ora, nonostante la superstizione scientifica dei ‘muscoli’, nella normale vita quotidiana non è possibile per natura (ossia per realtà) creare un qualsiasi movimento controllando direttamente i singoli muscoli, a meno che non si accetti di diventare una marionetta, il che certo non rappresenta il massimo delle aspirazioni per un essere umano, tanto meno per un cantante. Sul pianeta Terra infatti accade che i movimenti muscolari si creino indirettamente come conseguenza di gesti naturali globali, ossia di processi dinamici che si autorealizzano e non sono frutto della creazione di singole ‘posizioni statiche’ o ‘figure obbligatorie’ che dir si vogliano. La natura di controllo indiretto che caratterizza la voce parlata e cantata, dovrebbe essere il principio primo (che è prima di tutto un atto di riconoscimento della realtà) di ogni disciplina che aspiri ad essere considerata ‘scienza’, violando il quale principio, la disciplina in questione diventa banale ‘fantascienza del canto’, genere letterario d’ intrattenimento attualmente molto ‘cliccato’ da insegnanti e allievi di canto.

I ‘muscoli’ dunque e quali precisamente? È incredibile come il muscolo scelto dalla foniatria come muscolo respiratorio per eccellenza, sia un muscolo ‘irreale’ (nel senso che non ne abbiamo la percezione diretta) e che di questo muscolo prima della seconda metà dell’ Ottocento nelle scuole di canto non si conoscesse neppure il nome: il ‘Diaframma’! È noto l’ aneddoto riguardante Adelina Patti, che un giorno a Parigi andò ad assistere alle lezioni di canto del tenore Jean De Reszke e poiché questi, volendo atteggiarsi a maestro ‘scientifico’, continuava a riempirsi la bocca con questo parolone insegnando agli allievi, a un certo punto sbottò, esclamando candidamente: “Ma che cos’è questo diaframma?”. Già: ma che cos’è questo diaframma e che cosa c’entra con il canto e l’ apprendimento del canto, se esso non fa parte delle realtà percepibili con i sensi? Si può forse tenere un corso di pittura e basarlo sull’ insegnamento dell’ arte di mescolare gli infrarossi con gli ultravioletti? Evidentemente no, se si dispone solo di occhi umani. A questo punto, essendo l’ autorità della ‘scienza’ inconfutabile per statuto, il fenomeno psico-antropologico a cui si assisterà, assomiglia a quello descritto nella fiaba I vestiti dell’imperatore di Hans Christian Andersen: poiché nessuno riusciva a vedere i vestiti inesistenti dell’ imperatore, tutti fecero finta di vederli. Analogamente, poiché nessuno riesce a sentire questo ‘diaframma’, tutti si sforzano di sentirlo. In che modo? Attivando muscoli che non c’ entrano nulla col diaframma, ma che sono in grado di confermare l’ allievo nella sua illusione di aver acquisito il ‘controllo del diaframma’ cantando. Sono gli stessi foniatri artistici e insegnanti di canto di indirizzo foniatrico a riconoscere che oggi la tendenza generale è quella di un’iperattivazione del diaframma, ciò che è una delle cause della patologia del reflusso e in genere del logorio della voce. Ebbene, questa iperattivazione è collegata direttamente con le concezioni foniatriche dell’ appoggio come facchinaggio muscolare e con gli sforzi fatti per ‘sentire’ e ‘controllare’ il diaframma. Tutte le concezioni tecnico-vocali che identificano il gesto olistico dell’ ‘appoggio’ (termine originato dalla percezione della voce che ‘galleggia’ ovvero appunto si ‘appoggia’ su qualcosa di elastico, acqua, cuscino, pallone o telone che sia) con l’ azione di contrazione-abbassamento del diaframma, provocano squilibri, che vengono poi artificialmente compensati in modo più o meno accentuato. Questo proprio a causa dell’ innaturalezza di un’idea, quella appunto del diaframma (estranea al vissuto degli esseri umani!), che si tenta di tradurre artificialmente in una realtà percepita, con tutte le tensioni muscolari che ne conseguono. Il paradosso che si viene così a creare, è il seguente: la foniatria artistica, nata dall’ esigenza di definire in maniera precisa e tangibile gli interventi tecnici del cantante, uscendo così dalla nebulosità di molta didattica tradizionale, non può evitare di cadere nel peccato opposto dell’ iperdeterminazione, suscitata da ogni controllo muscolare localizzato, causando rigidità e tensioni nel corpo, che renderanno impossibile l’ emissione libera.

Siamo arrivati così a un punto nevralgico della didattica e della tecnica vocale. Storicamente il ‘diaframma’ nasce nella seconda metà dell’ Ottocento come tentativo di bilanciare un potenziale squilibrio, rappresentato dalla tendenza di alcuni belcantisti a realizzare la respirazione naturale globale come respirazione esclusivamente alto-toracica, cioè come respirazione locale e non globale. Questo però ha determinato una caduta ‘dalla padella nella brace’, nel senso che è in questo preciso momento che viene elaborato, ad opera del foniatra Mandl, il nefasto tabù, tuttora perdurante, della ‘respirazione clavicolare’. In sostanza, per evitare una respirazione parziale, squilibrata verso l’ alto, si è creato un altro tipo di respirazione parziale, squilibrata verso il basso, quando per scongiurare il pericolo di una respirazione solo ‘alta’, bastava pensare di far nascere il respiro nel centro del corpo e poi lasciare, come accade nel sospiro di sollievo, salire l’ onda del respiro fino al torace. Un secondo paradosso si viene a creare con l’ introduzione del diaframma nella didattica vocale ed è il seguente: tutte le volte che l’ idea di diaframma funziona, è perché il cantante in realtà non ha pensato di controllarlo direttamente, ma ha semplicemente immaginato il diaframma come variante metaforica del pallone o telone elastico su cui la voce si ‘appoggia’. Questa immagine sintetica, solitamente svalutata in quanto ‘empirica’, è invece in grado, contrariamente a quanto succede con l’ utopia meccanicistica del controllo muscolare diretto, di suscitare il gesto globale dell’ appoggio, rispettando quindi la natura olistica e non meccanica di ogni azione muscolare naturale.

Purtroppo esiste un’altra obiezione RADICALE alla focalizzazione, nello studio del canto, del funzionamento fisiologico del diaframma ed è questa: L’ IDEA CHE IL DIAFRAMMA SCENDE NELLA FASE INSPIRATORIA, NEGA QUEL MOMENTO ASCENDENTE DELL’ ENERGIA CHE CARATTERIZZA L’INSPIRAZIONE E CHE È LA CONDIZIONE NECESSARIA PERCHE’ IL SUONO POSSA NASCERE ‘SUL FIATO’. In altre parole, se l’ onda del respiro durante l’ inspirazione SCENDE invece di salire, come farà il cantante ad attaccare il suono sull’ onda del respiro, cioè appunto SUL FIATO? Sarebbe come comprimere preventivamente una molla e poi sperare che possa ancora agire da ammortizzatore. È chiaro che a questo punto ci saranno solo due alternative, entrambe errate: 1 – o mi appoggio ugualmente sull’onda, ormai discesa, e cadrò nell’ AFFONDO, o attiverò quella manovra meramente compensativa che si chiama SOSTEGNO, che nulla ha a che fare con l’ APPOGGIO. Il vizio costitutivo meccanicistico, tipico dell’ approccio foniatrico, è un elemento che accomuna tra loro sia gli iniziali meccanicismi ingenui dell’ abbassamento diretto della laringe e del diaframma (tipici ad esempio dell’‘affondo’, metodo foniatrico D.O.C.) sia i metodi foniatrici più recenti e soft. Un esempio è rappresentato dal metodo base di respirazione di Alessandro Patalini. Nonostante l’ apprezzabile proposito teorico di garantire la naturale fluidità ed economicità del movimento respiratorio, alla fine tutto questo viene negato e contraddetto dalla decisione di attribuire un’importanza centrale non a una funzione naturale globale, ma ad una componente anatomica (il diaframma appunto) di questa funzione naturale globale. L’ attenzione è sempre ossessivamente rivolta al diaframma, di cui occorrerebbe garantire in parte il rilassamento, in parte la contrazione, con tutta la complicazione sul piano pratico, connessa a un’idea del genere. Non solo: questo modello teorico comporta anche lo sdoppiamento di ciò che prima, pur essendo articolato, era percepito come unitario. Per quanto basato su una struttura dinamica complessa, infatti, l’atto dell’ appoggio secondo i suoi scopritori poteva e doveva essere vissuto, al pari di tutti gli atti naturali, come atto al contempo integrale e semplice. In assenza di queste caratteristiche, si può essere certi che si è di fronte a una complicazione artificiale e dannosa, una sorta di surrogato esterno che niente ha a che fare col fenomeno autentico originario. Questo è esattamente quello che succede con l’appoggio moderno, forma di attivazione muscolare che non è più un equilibrio dinamico che si autogenera e si autosostiene, ma è divenuta una struttura meccanica che ha bisogno di una stampella per stare in piedi. Questa stampella è nota col nome di ‘sostegno’ (che ovviamente non ha nulla a che fare col “sostegno” di cui parlava Mancini nel Settecento) e ha la stessa plausibilità funzionale e logica delle rotelle di una bicicletta per bambini.

Il semplice ‘senso comune’ dovrebbe essere in realtà sufficiente per mettere in evidenza l’ assurdità di una manovra, in cui al fenomeno del suono che si ‘appoggia’ verso il basso, dovrebbe corrispondere un’ azione volontaria di sostegno verso l’alto, svolta dai muscoli addominali, ma purtroppo l’ eccesso di teorizzazione meccanicistica provoca sempre un certo distacco dalla realtà concreta ed ‘empirica’. Nella realtà concreta succede che l’ appoggio della voce corrisponde esattamente al fenomeno dell’ appoggio di un oggetto (sia esso una barca o un aeroplano) e questo ubbidisce sempre alla legge di gravitazione universale, da cui appunto la metafora dell’ ‘appoggio’. Ora se io ‘mi appoggio’ su una sedia, cioè mi siedo, questa non si può evidentemente considerare una ‘attività’ da parte mia, ma semmai da parte della sedia, che mi dovrà appunto ‘sostenere’… Pertanto, così come sarebbe un’assurdità se io, stando seduto su una sedia, contemporaneamente mi attivassi per ‘sostenere’ dal basso la sedia con le mani, così è assurdo che cantando io debba attivarmi per ‘sostenere la risalita del diaframma’ (o, secondo alcuni maestri, per ‘sostenere la colonna aerea’) controllando direttamente il rientro dei muscoli addominali. Questa manovra (il rientro volontario dei muscoli addominali, cioè il sostegno foniatrico) non è, come di solito si dice, l’ altra faccia dell’appoggio, ma la sua negazione. Ci si dimentica infatti il fatto che, essendo il canto espirazione, il rientro dei muscoli addominali non deve essere attivato volontariamente (nel qual caso non si può creare l’ equilibrio dinamico dell’appoggio), ma deve essere lasciato avvenire automaticamente, divenendo visibile esternamente solo verso la fine di una frase. In sostanza, l’ appoggio moderno si può considerare solo l’ imitazione esterna e la caricatura meccanica di UNA COMPONENTE del fenomeno autentico originario, fenomeno che, lungi dall’ essere una complicazione meccanicistica, è semplicemente una manifestazione della natura profonda, cioè la realizzazione di una delle sue infinite possibilità latenti, e come tale una volta era vissuto, dando al cantante un senso di serena stabilità della voce, senza alcuna necessità di ‘sostenerla’ muscolarmente perché in partenza era stata affondata a seguito di azioni muscolari grossolane, tutte facenti capo all’ossessione del ‘diaframma’. Sbattuto fuori così dalla dimensione dell’ equilibrio naturale, il cantante incomincerà a dibattersi tra i due poli opposti della tensione e del rilassamento, senza mai venire a capo di questa dicotomia.

Contrarsi o rilassarsi cantando ? Questo è il dilemma che, come un circolo vizioso, attraversa tutte le odierne scuole di canto, con una netta prevalenza della prima opzione, riproposta nelle più bizzarre formulazioni meccanicistiche e spesso spacciata tout court per ‘tecnica’. Occorre a questo punto riconoscere che il perdurare di concezioni tecnico-vocali che interpretano il tradizionale ‘appoggio’ della voce come attivazione volontaria e localizzata dei muscoli respiratori, è dovuta non solo alle concezioni meccanicistiche che abbiamo esaminato e allo spirito attivistico che caratterizza l’ epoca che viviamo, ma anche alla constatazione di un effettivo dato di fatto: limitandosi a ‘rilassarsi’, nel senso di afflosciamento-inerzia, i problemi semplicemente non si risolvono, anzi in taluni casi si aggravano. D’ altra parte è altrettanto evidente che neppure l’ opzione contraria rappresenta la soluzione che fa ‘filare tutto liscio’, e la vista di molti cantanti col corpo attraversato da tensioni, contrazioni e contorsioni muscolari, invece di indurre insegnanti e allievi a cercare un’alternativa che esuli da questa dicotomia, li induce a cercare nuovi e sempre più ‘originali’ punti del corpo su cui fare leva, con una netta predilezione significativa e simbolica (altro segno dei tempi) per le zone anatomiche più basse del corpo, ad esempio i muscoli pelvici, assurti ormai a nuove ‘divinità muscolari’ del canto, in competizione col Diaframma. La teoria secondo cui contraendo volontariamente questi muscoli, si creerebbe l’ appoggio nel canto, quando addirittura non si otterrebbe una distensione della parte superiore del corpo (laringe compresa) è una teoria smentita dal semplice fatto, di esperienza comune, per cui quando si cerca di sollevare un oggetto molto pesante (ad esempio un pianoforte), affinché i muscoli addominali possano funzionare da leva muscolare, la laringe automaticamente si contrae, impedendo la fuoriuscita dell’ aria. Ora questa manovra (che potremmo definire ‘manovra del facchino) ha sì come effetto una maggiore attivazione dei muscoli addominali e delle corde vocali (che saranno indotte a chiudersi ‘ermeticamente’, realizzando la loro funzione originaria di valvola), ma questo fenomeno non ha nulla a che fare con il vero appoggio del canto, dove invece le corde vocali, se si vuole che ‘liberino’ il maggior numero di armonici, devono vibrare passivamente e non attivamente. Questo spiega perché l’eventuale intensificazione del suono, ottenuta nel primo, trogloditico modo, è sempre associata a una durezza e rigidità del suono, durezza e rigidità che, nonostante il pio desiderio di molti insegnanti e allievi, rimarranno sempre un elemento strutturale ineliminabile della composizione acustica di quel suono, in altre parole il suo marchio di Caino. In pratica, questa manovra equivale a un frenare e accelerare nello stesso tempo, mentre il vero canto consiste nel sapere accelerare, avendo imparato a non frenare contemporaneamente.

Se leggiamo il maestro di canto che per primo ha elaborato il concetto di “appoggio”, il succitato Francesco Lamperti, rimaniamo stupiti nel constatare tre fatti:
1 – il concetto di appoggio non viene ricondotto, come invece succede ora, al significato antitetico di attività muscolare, tanto che Lamperti arriva a scrivere: “la voce non sarà ben appoggiata finché l’allievo non dimostri di non fare alcuna fatica nella sua emissione e la sua fisionomia non sia calma e naturale”;
2 – l’ appoggio viene definito “appoggio del petto e del fiato”, il che significa due cose: che il suo epicentro non è l’ ipogastrio e i muscoli pelvici (come oggi, per influenza delle scuole di canto nordeuropee, si vuol far credere), ma è la zona sterno-epigastrica, e, in secondo luogo, che esso non corrisponde a una percezione esclusivamente muscolare, ma include anche la sensazione del dolce fluire del fiato (da cui il ‘canto sul fiato’), sensazione in assenza della quale il suono non sarà mai morbido;
3 – col concetto di “regola del fiato”, che è un’ altra definizione dell’ appoggio data da Lamperti, viene sottolineato il fatto che non si tratta di un’attività che si svolge per singoli impulsi muscolari volontari, ma di un’ autoregolazione dell’energia, che avviene sempre in modo calmo, fluido e progressivo, senza ‘colpi’ improvvisi (dai belcantisti definiti “villane spinte di voce” e oggi scambiati per ‘appoggio’), colpi che non farebbero altro che accentuare la contrazione rigida del corpo e rendere impossibile il legato;

La contrazione rigida del corpo è una delle tre strade del trivio davanti al quale si trova il cantante nel ‘salire’ alla zona acuta. La seconda strada, come abbiamo visto, è rappresentata dal ‘rilassamento-afflosciamento’, che ugualmente rende impossibile il mantenimento dello spazio di risonanza di cui necessita il canto. La terza strada, indicata dalla tradizione italiana, è quella della distensione-espansione ed è quella risolutiva. Come ogni armonia, anche il canto è fusione di tensione e distensione. Ora poiché la tensione è qualcosa che produciamo per conto nostro ad abundantiam, ciò che dobbiamo cercare è la distensione, ma non una distensione ‘afflosciata’, (nel qual caso perderemo il contatto con l’ energia che crea il canto), bensì una DISTENSIONE ESPANSIVA. Questa espansione elastica autogena è il fattore che distingue il canto di alto livello da quello basato o sulla tensione-contrazione o sul rilassamento-afflosciamento. A questa condizione ‘armonica’ faceva riferimento (ancora una volta) Francesco Lamperti, quando parlava di un “apparecchio vocale tutto naturalmente dilatato e morbido” e, ovviamente, ne ricollegava i presupposti all’inspirazione naturale profonda. Solo se si sa come creare (grazie alla giusta inspirazione) e cogliere al volo il momento di distensione espansiva che precede l’ avvio del suono, si potrà introdurre nella ‘pasta vocale’ quel lievito che poi farà crescere e sbocciare naturalmente la voce nella zona acuta. Questa è la condizione perché la potenza vocale possa coniugarsi con la morbidezza, in assenza della quale sarà banale urlo, più o meno mimetizzato e giustificato ‘tecnicamente’. Tutto questo trova conferma nella famosa definizione di Lauri Volpi del suono belcantistico di tradizione italiana come “suono sferico, calmo, leggero, potente”. In effetti tutte le tecniche vocali che contraddicono uno solo di questi aggettivi, devono considerarsi estranee alla tecnica vocale italiana, ossia non sono belcanto, e di questo occorrerà tenere conto nel definire i principi tecnico-vocali costitutivi della tecnica vocale italiana storica.

In base alla formula elaborata dal castrato Mancini e poi confermata autorevolmente verso la fine del secolo da un divo dell’opera come Gaspare Pacchierotti, il canto è il risultato della giusta interrelazione tra giusto respirare e giusto dire. Questa giusta interrelazione è resa possibile solo se il respiro è ampio, morbido e non meccanico. In altre parole, solo con l’ampiezza dell’inspirazione (passiva), insita in gesti naturali come il sospiro di sollievo e la boccata d’ aria rigeneratrice è possibile trapiantare il seme del parlato (cerchio piccolo) nello spazio più grande e senza pareti del canto (cerchio grande che contiene in sé il cerchio piccolo). Tutti gli altri metodi, che implicano una meccanizzazione anche di una sola delle due componenti del canto (l’ articolazione e la respirazione), impediscono la loro naturale fusione armonica e determinano una subordinazione (invece che una coordinazione) di un elemento rispetto all’ altro, che è causa di rigidità e tensioni del corpo e di distorsioni acustiche più o meno gravi. Questo per lo stesso principio per cui il trapianto nel corpo di un elemento estraneo all’ organismo, provoca una immediata reazione di rigetto. Nel caso della respirazione (che è il processo naturale che crea anche lo spazio della cosiddetta ‘gola aperta’), a causare il rigetto sono, come abbiamo visto, tutte le respirazioni anatomiche, elaborate in successione dalla foniatria nel corso di un secolo e mezzo: dalla respirazione addominale, a quella diaframmatico-addominale, a quella costo-diaframmatico-addominale a quella pelvico-costo-diaframmatico-addominale, tutte basate sulla follia del dividere e poi illudersi di poter riattaccare tra loro i pezzi divisi.

Per distinguere la respirazione naturale superficiale del parlato da quella naturale profonda del canto, i cantanti di tradizione belcantistica (da Mengozzi a Caruso) hanno sempre parlato di respiro ‘a pieni polmoni’, ma poi arrivarono i foniatri a dire che quel respiro era pericoloso (?) e purtroppo ci si misero anche persone intelligenti come la Lehmann a introdurre la fobia moderna dei respiri ampi, che ‘ingolfano d’aria’, da cui il concetto di respiro ‘normale’, teorizzata da insegnanti come la Rohmert e Seth Riggs e, peggio ancora, la prescrizione di attaccare il suono sull’ aria residua di foniatri come Marafioti. Ora certamente anche il respiro normale è un respiro naturale e rilassato, ma essendo quel respiro nient’ altro che il respiro del parlato e dovendo del parlato già mantenere nel canto il nucleo del suono perché sia puro, è ovvio che dalla somma di due cose uguali non potrà mai scaturire il nuovo, ovvero, nel nostro caso, il canto. In effetti, a ben vedere, il problema del ‘respiro che ingolfa’ nasce solo se l’attenzione è rivolta al fine di immagazzinare attivamente e direttamente l’ aria, dopodiché inconsciamente il fine diventerà quello di trattenerla affinché il suono non si ‘sporchi’ (?) d’ aria, magari garantendo il cosiddetto ‘attacco simultaneo’, altra nevrosi foniatrica basata sull’ ossessione del controllare che la fuoriuscita del fiato non preceda l’ inizio del suono, ma coincida con esso (?!), ossessione totalmente inesistente, tanto per cambiare, quando parliamo… (Si noti il paradosso comico che così si crea: il suono è fatto d’ aria, ma noi dovremmo preoccuparci che il suono non si ‘sporchi d’ aria’… Come dire: “Sì, vai pure a nuotare, ma non bagnarti, mi raccomando”). Per fare piazza pulita di queste nevrosi pseudo-tecniche, è sufficiente pensare che l’ingresso dell’ aria non sia lo scopo dell’inspirazione, ma solo uno degli effetti collaterali (indiretti, come sempre succede nel canto) di quella distensione profonda che si crea se il respiro nasce con questa modalità ‘naturale globale’(sul modello della boccata d’ aria rigeneratrice e del sospiro di sollievo). Questa distensione profonda, questo reset periodico delle tensioni del corpo, che coincide con la vera inspirazione, è anche quell’ atto naturale che disattiva il riflesso condizionato di contrazione/chiusura salendo nella zona acuta e consente il fenomeno dello spazio di risonanza che ‘sboccia’ e apre la gola in modo disteso ed elastico e non rigido e forzato. Riferendosi a questo fenomeno, i belcantisti usavano significativamente espressioni come “voce spiegata” e “espandere la voce”, concetti questi radicalmente diversi dai moderni concetti di “proiezione” del suono e di aumento dello spazio di risonanza ‘per allungamento’, con conseguente creazione di ‘tubi verticali’ e relativo ‘intubamento’ del suono. In effetti l’ aria entra ed esce come vuole, come quando parliamo, e non bisogna fare niente né per trattenerla né per indirizzarla o spingerla, tanto meno per “pressurizzarla”, che è un’ altra delle tante perversioni meccanicistiche generate dall’ intellettualismo foniatrico. Occorre solo lasciarla fluire liberamente, il che accadrà automaticamente se permane la sensazione del suo naturale fluire. A questo punto l’ aria cessa di essere un problema e diventa un piacere, cessa di essere un’ imposizione e diventa una libertà. Questo è il significato vero della prescrizione belcantistica di respirare pensando di annusare un fiore, prescrizione purtroppo subito trasformata dalla miopia delle menti moderne in divieto di respirare con la bocca, mentre il suo vero significato è il seguente: se respiri pensando al piacere del respiro, l’ attenzione verrà deviata dal fine meccanico di immagazzinare aria (o, peggio ancora, dell’ immagazzinare il ‘giusto’ quantitativo d’ aria) e la respirazione si realizzerà da sola avendo quelle caratteristiche di calma e distensione profonda, che deve avere la respirazione del canto. In questo modo è possibile prescindere totalmente dal parametro quantità d’ aria (grande o piccola che sia), evitando così di imboccare i due vicoli ciechi creati da ogni falso dilemma, vicoli ciechi che sono:

1- immagazzinare tanta aria per realizzare la respirazione ‘a pieni polmoni’ dei belcantisti;

2- immagazzinare poca aria per non ingolfarsi d’aria, come prescrivono i foniatri.

In effetti il concetto tradizionale di respirazione ‘a pieni polmoni’ non è finalizzato, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, ad immagazzinare tanta aria, e questo per il semplice motivo che, se così fosse, essa sarebbe pressoché inutilizzabile cantando, dato che la maggioranza dei respiri del canto sono respiri rubati, cioè parziali. Il vero senso dell’ espressione respirazione a pieni polmoni (o, per meglio dire, ad ampi polmoni) è quindi quello di risvegliare il riflesso naturale di distensione profonda del corpo, che è associato non ai respiri superficiali del parlato, ma a quelli profondi e globali della boccata d’ aria e del sospiro di sollievo, e che, come abbiamo visto, sono quelli che creano la percezione della gola aperta e dello spazio che dà rotondità al suono. Dopodiché, col tempo, questo riflesso di distensione verrà suscitato anche con i respiri parziali e non solo con i respiri pieni. Pertanto se il pensiero è: inspirando mi distendo in profondità, indipendentemente da quanta aria inspiro e da quanta aria esce nell’ espirazione, allora la respirazione profonda rimarrà naturale e diventerà anche la respirazione che crea il canto. A questo punto la giusta relazione dinamica tra questi due processi naturali (il dire e il respirare) creerà anche l’ effetto naturale della voce che si autosostiene, cioè dell’ appoggio, regolando perfettamente (e automaticamente) la fuoriuscita del fiato.

Come abbiamo visto, il fenomeno naturale dell’ appoggio della voce, in epoca tecnologica e attivistica come la nostra è stato purtroppo totalmente travisato e interpretato come ‘pressurizzazione volontaria’ dell’ aria, moderna illusione demiurgica, impossibile da realizzarsi direttamente, ma che i cantanti si sforzano ugualmente di realizzare, ricorrendo al grottesco surrogato dell’attivazione di antagonismi muscolari superflui. In che modo un concetto chiarissimo come ‘appoggio’ sia stato scambiato e sostituito con concetti dal significato opposto come ‘torchio addominale’ e ‘sostegno’, rimane uno dei tanti misteri dolorosi dell’ attuale didattica vocale. Per non cadere nell’ inganno fatale e letale delle sirene il mito conosceva un rimedio: farsi legare all’ albero della nave come fece Ulisse, oppure tapparsi le orecchie con la cera, come fecero i suoi compagni di avventura. Nel nostro caso questo significa semplicemente una cosa: prendere finalmente e profondamente coscienza che la dimensione plurisensoriale e sensomotoria del corpo del cantante non ha niente a che fare con la dimensione razionale, astratta, muscolare ed esterna del corpo della fisio-anatomia.

Antonio Juvarra

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