Un saggio di Rodolfo Celletti, apparso diversi anni fa sulla rivista MUSICA, dedicato a uno dei baritoni più completi della storia.
Pasquale Amato, baritono napoletano (1878-1942) esordì nella sua città, al Teatro Bellini, nel 1900. Conobbe le prime affermazioni in campo internazionale (Londra, Buenos Aires) nel 1904. Cantò per la prima volta alla Scala nella stagione 1906/7 e vi tornò, con grande successo, nel 1907/8. Subito dopo fu scritturato al Metropolitan, dove cantò quasi ininterrottamente fino alla stagione 1919/20. In Italia fu possibile riascoltarlo al Costanzi di Roma nel 1911 (Fanciulla del West, di cui era stato il primo Sceriffo a New York) e a Busseto nel 1913, dove cantò Traviata e Falstaff in occasione delle onoranze a Verdi. Fu attivo fino al 1934, ma il suo miglior periodo ebbe termine intorno al 1916 o 1917. La Rubini ha raccolto in cinque microsolchi il meglio delle registrazioni di Amato: quelle comparse tra il 1907 e il 1910 a cura della « Fonotipia » e quelle edite dalla « Victor » — ora « R.C.A. » — tra il 1911 e il 1915. Abbiamo così un’ immagine sonora sufficientemente probante di uno dei maggiori baritoni del nostro secolo. Amato fu innanzitutto un cantante versatilissimo. Il suo repertorio partiva dalla Lucia e dalla Favorita e giungeva a Wagner e, occasionalmente, anche alla Dannazione di Faust di Berlioz e al Pélléas di Debussy. I suoi autori prediletti furono tuttavia Verdi e Puccini. Non si valuta però la versatilità soltanto enumerando le opere cantate; bisogna vedere come le si canta. Sotto questo aspetto Amato è forse il baritono più completo che abbia inciso dischi. Per lui cantare a mezza-voce o a voce spiegata, smorzare o rinforzare, scendere o salire, minacciare o implorare erano la stessa cosa. Tuttavia, se fu un buon Falstaff e se cantò L’ Elisir d’amore e la Manon Lescaut da giovane e il Barbiere (da vecchio), una corda gli mancava o vibrava molto meno delle altre: quella del genere brillante. In questa raccolta abbiamo la cavatina di Figaro cantata con voce ricca ed esuberante (più le gigionate d’epoca), ma il guizzo del brio più autentico e della gioia di vivere è relativamente fievole. Ognuno a suo modo, su questo terreno, De Luca, Stracciari, Titta Ruffo e Galeffi ebbero la meglio. Amato fu invece un baritono severo, aulico. Come molti cantanti del periodo dei 78 giri non è accessibile a tutti. Al primo ascolto sembra mancare di affabilità e frapporre tra se’ e chi lo ode una sorta di sussiego accademico. Inoltre, può incorrere in qualche scorrettezza di esecuzione. In fatto di quadratura musicale non si prende molte libertà, ma il suo tic sono i portamenti ascendenti. A parte ciò, rispetto a tutti i baritoni dell’ ultimo quarantennio, nessuno escluso, è un marziano, anzi un E.T. A seconda dei gusti potrete contrapporgli Warren, Tagliabue, Bastianini, Cappuccilli, Bruson. Niente da fare: una volta che lo si è capito non supera, ma demolisce tutti; e per di più intacca i miti di De Luca, di Stracciari, di Galeffl e, in certe occasioni, perfino quello di Titta Ruffo. Ma, ripeto, non sempre è agevole capirlo. E’ il baritono meno viscerale che sia possibile ascoltare in disco.
Va fatta una distinzione tra le incisioni “Fonotipia“ e le “Victor”. Le prime, a parte taluni casi in cui l’ accompagnamento è affidato al pianoforte, scapitano rispetto alle seconde sul piano del suono orchestrale, che è arronzato e primitivo. Inoltre, si può notare qualche squilibrio di intensità nel corso d’una stessa registrazione. Siamo ancora all’ età della pietra del disco, ma quasi certamente le apparecchiature americane erano superiori a quelle della “Fonotipia”. Nondimeno, i tecnici americani avevano e hanno tuttora, come i loro colleghi inglesi e tedeschi, la fobia del suono vibrante, squillante, luminoso. Di conseguenza, pur essendo la voce di Amato così ricca da figurare splendidamente anche nelle incisioni “Victor”, nei “Fonotipia” il suono è più intenso e dirompente. Lo si nota abbastanza facilmente visto che, dei 58 brani che fanno parte della raccolta Rubini, una quindicina compaiono sia nelle registrazioni italiane che in quelle statunitensi. È anche da rilevare che, negli acuti, si percepisce un vibrato stretto di tipo particolare. Dipende soprattutto, credo, dall’ incapacità delle apparecchiature del tempo di incamerare senza distorsioni gli acuti delle voci eccezionalmente ampie e squillanti. Negli spazi dei grandi teatri questo vibrato di Amato sfuggiva agli ascoltatori e anche ai critici, nessuno dei quali, che io sappia, ebbe a notarlo. Ancora. Quando Amato passò al Metropolitan, cantò spessissimo con Caruso, della cui voce s’ invaghì a tal punto da divenirne un imitatore. Evidentemente è obbligatorio, anche per i cantanti eccezionali, avere un cote bète. Vero è che, nei “Victor”, l’ imitazione di Caruso non toglie nulla alla facilità di emissione, all’ ortodossia tecnica e alla fantasia interpretativa di Amato. Sottrae però un pizzico di autenticità al timbro e qualche volta è troppo scoperta. Nella canzone Torna a Surriento, ad esempio, non soltanto qualche screziatura coloristica, ma la dizione e la scansione di Caruso sono abbastanza evidenti.
Lessi, una volta, che l’ imitazione di Caruso sarebbe stato uno dei motivi del precoce declino di Amato. Non credo, perché, come dicevo, la fonazione non è chiamata in causa, a differenza di ciò che accadde, per esempio, a Giovanni Martinelli. Amato declinò precocemente sia per eccesso di lavoro, sia, in modo più marcato, perché non si riprese mai completamente da una grave malattia renale che lo colpì nel 1918 e che lo costrinse a un anno di inattività. Caruso o non Caruso, ad ogni modo, i moduli d’ esecuzione e le idee interpretative dei brani incisi per la “Fonotipia” ricompaiono senza troppi mutamenti anche nei “Victor”.
Amato fu, a un tempo, un baritono patetico e un baritono arcigno. L’ “Eri tu” del Ballo in maschera è un brano in cui le due corde si alternano e si integrano, ma il discorso sulle interpretazioni verdiane è un capitolo a parte. Dove Amato è prevalentemente o esclusivamente patetico è in « Sei vendicata assai » della Dinorah , nel Prologo dei Pagliacci , in « O tu bell’astro » del Tannhäuser e in « Tu m’eri innanzi » della Germania di Franchetti. La pateticità è nel timbro, nel velluto, nella morbidezza, nella perfezione del legato, anzitutto; ma anche nell’ accento. Non ci si attenda, però, nemmeno nei dischi « Victor », la lacrima nella voce di Caruso o di Galeffi; e, meno che meno, il sentimentalismo verista. Amato ha un riserbo che non rientra soltanto in un fatto interpretativo, ma nella perfezione quasi strumentale della linea di canto. A qualsivoglia altezza o intensità, il suono è sempre limpido, rotondo, pastoso, omogeneo. Ma sotto l’ eccezionale nitidezza formale troviamo una dizione chiarissima e un accento che sa essere caldo e trepidante, ma restando controllato e aulico. Insigne esecutore di opere veriste, Amato ignora le più divulgate blandizie del verismo. Canta il Prologo dei Pagliacci (senza il famoso la bemolle per la « Fonotipia », con un la bemolle eccellente per la « Victor ») esprimendo una tristezza tutta interiore con mezze tinte e sfumature. Sono pochi, in tutta la storia del disco, i baritoni che possano stargli accanto in questa pagina. Forse nessuno. Titta Ruffo ha tutt’ altro indirizzo. Nomino Titta Ruffo perché la tentazione del raffronto è costante in chi ascolta il napoletano conoscendo le incisioni del pisano. E, d’ altra parte, Amato e Titta Ruffo sono, con Battistini (arcaico nel gusto, però, è giunto alle sale di registrazione in età avanzata) i tre barìtoni che più di qualsiasi altro ci fanno ascoltare, in disco, o a frammenti o a blocchi, le cose più straordinarie. Sempre escludendo, per ora, Verdi, all’ Amato patetico si contrappone l’ Amato protervo dell’ Africana , della Tosca , della Gioconda . Ma anche qui l’ accuratissima linea di canto e lo stile aulico, uniti alla varietà delle inflessioni, all’ accento altisonante e allo squillo, pongono Amato su un piano particolare. Nel Prologo dei Pagliacci , Titta Ruffo fa valere qualità timbriche più singolari di quelle di Amato e sfoggia — ma così anche nel “Sei vendicata assai” della Dinorah — qualcosa di fremente, di torrenziale che non si sfoga soltanto in acuti dinamitardi, ma pervade tutto il fraseggio. Sono due voci bronzee, ma in quella di Titta Ruffo il metallo è più erto, come spessore, e più balenante. Tuttavia la varietà, la dolcezza e la composta malinconia di Amato pareggiano abbondantemente il conto. Nella barcarola di Barnaba, invece, e ancor più nell’« All’erta marinar » di Nelusko, Titta Ruffo prevale. La sua è veramente, nell’ Africana , una voce barbara, ciclopica, da forza della natura in fermento. Amato è soltanto il migliore — in disco — dopo di lui. Ma se cede a Titta Ruffo è anche perché appartiene a una civiltà vocale più raffinata e composita, che lo frena non tanto nell’ espansione del suono quanto nell’ esibizione di quel pizzico di istrionismo che, a tempo e luogo, soggioga chi ascolta. Amato ha più colori di Titta Ruffo, più fantasia, migliore tecnica, ma è irrimediabilmente inferiore come istrione.
Questi microsolchi di Amato hanno in ogni caso un valore didattico inestimabile. O, meglio, lo avrebbero se esistessero docenti pubblici o privati capaci di distinguere un suono « immascherato » da uno aperto o ingolato, di non confondere il canto « con il fiato » con quello « sul fiato » e di spiegare che cosa sia un passaggio di registro, come avvenga e a che serva. Ad ogni modo, dedicherò qualche cartella agli eventuali lettori di buona volontà e agli eventuali giovani cantanti che volessero sapere perché le incisioni di Amato costituiscono una grammatica e una sintassi inestimabile. Il fatto è che i Battistini, i Titta Ruffo, gli Stracciari, i De Luca hanno particolarità timbriche (e anche espedienti) che, senza nulla togliere alla resa artistica, non si prestano tuttavia a un perfetto « test » didattico. Galeffi, semmai, o Danise, ma in modo meno esplicito.
Prendiamo, per esempio, il.« Sei vendicata assai » della Dinorah nella versione « Victor ». È un Andante Cantabile che richiama un poco le vecchie arie di portamento. Sin dai primi suoni s’ avvertono la morbidezza e la pastosità del canto « immascherato » sostenuto da una respirazione esemplare. Cantare in maschera vuol dire portare il suono, con il sostegno del fiato, a risuonare nelle cavità superiori facciali, che servono da casse di amplificazione. Nei suoni gravi e centrali, la voce brada è amplificata quasi esclusivamente dalle cavità inferiori o toraciche. La voce coltivata cerca anche il sostegno delle amplificazioni facciali, la cui partecipazione è sempre più percepibile a misura che la voce sale. Questo procedimento arricchisce il timbro di armonici, ma, soprattutto, consente al cantante di ottenere vibrazioni intense senza essere costretto a ingrossare e dilatare il suono. Conseguenza: non soltanto il cantante evita la stanchezza, ma ottiene un suono più ampio e più duttile. Chi ingrossa e dilata è sempre, ruvido e duro; oppure velato, opaco. Allora si dice, in gergo, che ha la voce « indietro ». Incorre inoltre in angolosità, squilibri, disparità di vibrazioni, di colori, di ampiezza; né può « legare » impeccabilmente.
Amato inizia « Sei vendicata assai » e immediatamente avvertiamo che, nel divenire della frase, ogni nota è piena e dolce insieme e legata, anzi saldata alle altre con una leggerezza di tocco veramente strumentale. È la continuità del flusso del fiato che colloca ogni suono al proprio posto, morbidamente, spontaneamente. Man mano che la melodia porta la voce in alto, sentiamo salire anche il punto focale di risonanza. Finché, alla frase « Dischiudi o cara i rai », ascoltiamo, sul sol b. acuto di « Cara » un passaggio di registro da manuale, che subito dopo riudiamo sul mi b. « implora ». È come se la voce spiccasse un salto, girando su se stessa. In effetti, questa specie di piroetta è l’ operazione più difficile, più « professionale » che un cantante debba compiere. Nell’ ultimo trentennio, fra i baritoni e i bassi baritoni, l’ ho sentita compiere in modo veramente corretto soltanto da Sesto Bruscantini e da Samuel Ramey. Senza il passaggio, una volta oltrepassato il re naturale, la voce di Amato si sarebbe a poco a poco sbiancata, opacizzata, indurita. Per evitarlo, Amato ha scurito o coperto il suono (è la leggendaria «u» a gola aperta della vecchia scuola) con ciò imprimendo alla laringe, fino allora in ascesa, una lieve inclinazione verso il basso. Ciò basta a iniziare la progressiva decontrazione di certi muscoli e la contrazione di altri e a ottenere : un’ impostazione laringea adeguata a quelle che sono le vibrazioni delle corde vocali delle note alte. Il segreto dell’eccezionale facilità e dello straordinario squillo degli acuti di Amato e, insieme, quello della morbidezza, della duttilità e della limpidezza dei suoni alti, è tutto qui. Nessuna voce, anche se fenomenale, può arrivare a tanto con l’ emissione brada, naturale. Occorre l’intervento della tecnica. Gli acuti di Stracciari, quelli di Galeffi e di tanti altri coevi erano quelli che erano grazie alla tecnica. E non date retta alla favoletta che gli acuti di Tito Gobbi erano brutti (cioè duri, opachi, strozzati) perché così voleva la natura. Se Gobbi fosse stato vocalmente un professionista, anziché un dilettante, avrebbe avuto acuti eccellenti e non avrebbe né stonato, né opacizzato o falsettato i suoni nei tentativi di modularli in zona alta.
Quanto ai leggendari acuti di Titta Ruffo, anch’ essi erano dovuti a un passaggio di registro eseguito a regola d’arte. Ma, in alto, Titta Ruffo non poteva smorzare i suoni e cantare con la dolcezza di Pasquale Amato. Dipendeva da un insieme di fattori, d’ ordine didattico, psicologico e culturale il cui esame provocherebbe un discorso troppo lungo e complesso, in questa sede. Quello però che si può dire è che, per cantare Verdi, la tecnica, la voce e lo stile di Amato rappresentano, in disco, un limite mai da nessuno uguagliato. Bisogna però prima intendersi su ciò che significhi per un baritono cantare Verdi. Il Verdi dei baritoni che udiamo da qualche decennio è o adulterato o monocorde. Verdi non richiede il cosiddetto baritono di forza o drammatico. Assimilare il baritono verdiano a quello di Wagner o a quello dei veristi è, in un certo senso, degradarlo. Gli stili fondamentali che Verdi richiede al baritono (che fra l’ altro è la sua voce psicologica) sono due: il patetico e il grandioso. E quando scrivo grandioso adotto un termine che ricorre spesso in partitura, specialmente nel primo Verdi. Amato disponeva di entrambi. Titta Ruffo poteva superarlo nello stile grandioso, ma, in un certo senso, ignorava lo stile patetico. Questo in Verdi è un controsenso. Mai compositore come Verdi ha profuso nelle partiture tante richieste di mezze voci, piani, pianissimi e ultrapianissimi. Se si ascolta l’« Eri tu » di Amato, s’ ascolta anche la perfetta fusione tra i due stili. La tipica severità di Amato, il suo modo oratorio di fraseggiare, la scansione altisonante e solenne possono anche lasciare indifferente chi è assuefatto al visceralismo d’ impronta verista, ma il vero Verdi è questo, in situazioni del genere: togato, araldico. Raramente in Verdi la vendetta è un ‘incombenza per beceri che digrignano i denti e muggiscono per fare la voce « cattiva » o sardonica. Queste sono caccole da anni Quaranta e Cinquanta. La vendetta, per Verdi, è un atto di giustizia, sia pure unilaterale, arbitrario, che risponde a un’ offesa a sentimenti sacrali e a infrazioni a norme del codice d’ onore. Non può essere perpetrata in maniche di camicia. Amato — ed è uno dei suoi maggiori meriti — non canta mai Verdi in maniche di camicia; e quando assicura all’ esecuzione una linea vocale tornita e suoni sempre morbidi, pastosi, vellutati, non fa che sottolineare la nobiltà di Renato. Nobiltà d’ animo, per certi aspetti, nobiltà di casta per altri. Ma ascoltate anche la dolcezza delle mezze voci, la consistenza psicologica di certe smorzature, i perfetti trapassi dallo sdegno al dolore. Notevolissimi anche i brani del Rigoletto : il duetto del I atto con la Hempel e la grande scena del III, dall’invettiva ai cortigiani al « Miei signori ». La varietà dell’ accento e dei colori, la scansione del « Cortigiani, vil razza dannata», l’ imponenza del fraseggio largo e vibrante, la pateticità delle implorazioni, sublimano la sofferenza di Rigoletto. Esempi di stile grandioso sono poi l’« Urna fatale » della Forza del destino , oppure il duetto dell’ Aida con Ester Mazzoleni o l’entrata del Conte nel Trovatore , « Tace la notte ». È veramente l’ incedere d’ un aristocratico e d’ un condottiero. Sempre nel Trovatore (duetto atto ultimo con la Gadski) c’ è un « Qual voce, come, tu, donna… » d’ un fascino interpretativo straordinario. Mentre nella versione « Victor » del duetto Amonasro-Aida frasi come « A te grave cagion m’ adduce, Aida » o come « E patria e trono e amor » sono veramente illuminate dall’ interno.
A che serve la tecnica? A cantare come Amato. Senza un’ emissione così calibrata, così fluida, Amato, pur con la sua voce stupenda, non avrebbe potuto eseguire nemmeno la decima parte degli effetti interpretativi che sfoggia in questa raccolta. È la logica, ineluttabile conclusione alla quale s’ arriva dopo averlo ascoltato.
Rodolfo Celletti